di Goffredo Galeazzi
Molto più rassicurante l’aspirina dell’agente arancio, il defoliante alla diossina sparso dagli Usa in Vietnam, o del glifosato, il potente erbicida indicato dallo Iarc come probabile cancerogeno e che l’Unione europea non è riuscita a bloccare, nonostante una capillare campagna per la sua messa al bando. Forse è anche questa la motivazione che ha convinto la tedesca Bayer, al termine della fusione con Monsanto, a sopprimere il brand inquietante della multinazionale Usa e lasciare solamente il proprio marchio.
A due anni dall’annuncio, ottenuto il via libera dalle autorità antitrust Ue e Usa, il gruppo farmaceutico e dell’agrochimica tedesco porta a termine oggi 7 giugno la fusione con la multinazionale americana, gigante specializzato in Ogm e pesticidi. L’operazione si configura come una delle maggiori acquisizioni mai realizzate all’estero da parte di una società basata in Germania, dando vita a un colosso nel campo delle sementi e dei fertilizzanti. I prodotti della nuova società saranno venduti con il loro nome commerciale, ma sparirà il marchio Monsanto. Costo dell’operazione: 63 miliardi di dollari, pari a poco meno 54 miliardi di euro, finanziati con un aumento di capitale di 6 miliardi di euro e 20 miliardi di obbligazioni.
Dall’operazione Bayer si attende un contributo positivo all’utile a partire dal 2019, ma ha rivisto al ribasso le attese sulle sinergie che ne deriveranno, stimate ora in 1,2 miliardi di dollari di ricavi all’anno dal 2022 in poi, rispetto alla precedente previsione di 1,5 miliardi. L’operazione rientra in un grande piano di riorganizzazione strategica del colosso tedesco, che ha ceduto le attività legate al business della plastica per concentrarsi su due aree: la farmaceutica e l’agricoltura.
L’azienda di Leverkusen ha già siglato un accordo con Basf, imposto dalle autorità Ue e Usa prima di dare il via libera alla fusione, per la cessione di attività (alcune sementi tra cui la soia e la canola, l’erbicida Liberty, alcuni brevetti, progetti di ricerca e sviluppo) per un valore complessivo di circa 9 miliardi di euro. Si consolida così il polo tedesco nel settore dell’agrochimica, che ha già visto restringersi la platea degli operatori dopo la fusione tra le statunitensi Dow e Dupont e l’acquisto della multinazionale svizzera Syngenta da parte di ChemChina. Quest’ultima nota in Italia per aver rilevato i pneumatici Pirelli.
Dopo l’operazione Bayer-Monsanto, “il 63% del mercato delle sementi e il 75% di quello degli agrofarmaci è concentrato nelle mani di sole tre multinazionali con un evidente squilibrio di potere contrattuale nei confronti degli agricoltori”, lamenta Coldiretti.
Per Bayer, che impiega 99.800 addetti e ha registrato ricavi per 35 miliardi di euro nel 2017, la fusione con Monsanto significa aumentare i dipendenti a 115.000 e i ricavi a 45 miliardi, derivanti per metà dal business salute e per l’altra metà dall’agricoltura.
Contro la fusione, avviata nel 2016, ambientalisti, Ong e rappresentanti della società civile hanno fatto pressioni sulle autorità e organizzato manifestazioni di protesta in tutto il mondo. “Bayer vuole che crediamo che cambiando il nome risolva i problemi …”, ha dichiarato Greenpeace su Twitter.
Due anni fa il settimanale tedesco Der Spiegel, scriveva che la fusione transatlantica Bayer-Monsanto, oltre a poter avere riflessi sul rinnovo dell’autorizzazione per l’utilizzo del glifosato nella Ue, sembrerebbe intrecciata ai negoziati sul Ttip, accordo che potrebbe “indebolire i processi decisionali democratici a vantaggio delle multinazionali”. Perché il trattato, secondo i contrari, abbasserebbe gli standard di qualità e sicurezza che in questo momento proteggono l’ambiente e la salute dei cittadini europei. Un obiettivo che verrebbe raggiunto attraverso l’adozione di leggi che eliminerebbero le differenze normative che esistono tra Unione europea e Stati uniti (dove gli standard di sicurezza sono decisamente più bassi) a tutto vantaggio di questi ultimi.