di Maria Pia Terrosi
Il 13% della produzione mondiale di nocciole è italiana. Il nostro Paese – al secondo posto dopo la Turchia che copre il 70% del mercato globale – ne produce circa 110.000 tonnellate all’anno. Oggi 70.000 ettari di superficie agricola sono dedicati a questa coltivazione, distribuiti in prevalenza in tre aree: nel Viterbese (circa 45.000 tonnellate all’anno), in Campania (quasi 40 mila) e in Piemonte (20 mila).
Ma secondo la Ferrero Halzelnut Company – il maggior utilizzatore di nocciole al mondo – si può fare di più. La multinazionale di Alba, pur acquistando anche da Turchia, Georgia, Serbia, Cile, Australia e Sud Africa, guarda con particolare interesse all’Italia per soddisfare una domanda globale sempre in crescita: il progetto Nocciola Italia messo a punto dalla Ferrero prevede, infatti, di incrementare le coltivazioni del 30% entro il 2025, aggiungendo 20.000 ettari di noccioleti, cioè 10 milioni di piante.
“Oggi nella Tuscia un ettaro di noccioleto coltivato secondo metodi convenzionali – ci racconta Claudio Menicocci che coltiva nocciole bio in 17 ettari nella sua azienda vicino Viterbo – produce fino a 50 quintali di nocciole: più del doppio rispetto ai 15-20 quintali che si ottengono da una produzione biologica. E ha una resa in sgusciato pari al 50% (ovvero la quota di prodotto edibile rispetto al peso complessivo compreso di guscio), rispetto al 40% del biologico”.
Ma per arrivare a questi livelli di produzione così spinti, le coltivazioni sono sostenute da elevate quantità di fitofarmaci e fertilizzanti. “Ormai su un noccioleto convenzionale – prosegue Menicocci – si fanno lo stesso numero di trattamenti fitosanitari che si fanno su un vigneto: in media da 7 a 8 all’anno per sconfiggere i parassiti del nocciolo, tra cui la cimice, il balanino e la cocciniglia. E pensare che in passato le piante di nocciole quasi non si trattavano! Poi bisogna aggiungere i trattamenti fertilizzanti e quelli diserbanti che vengono praticati sul terreno per facilitare la raccolta delle nocciole”.
E’ evidente che incrementare la superficie coltivata a noccioleto vuol dire aumentare l’utilizzo di fitofarmaci, cosa che non può che aggravare le problematiche ambientali del territorio e ridurre ancor più la biodiversità. Esattamente l’opposto di quanto indicato dall’Isde di Viterbo che proprio un mese fa, nel corso di un incontro alla Prefettura di Viterbo, ha presentato un documento che torna a denunciare gli allarmanti livelli di inquinamento e di eutrofizzazione raggiunti dalle acque del lago di Vico, problema strettamente connesso all’impiego di fertilizzanti e fitofarmaci nelle aree coltivate a noccioleto in prossimità del lago. Al punto che l’Isde nella stessa occasione ha chiesto di interrompere “al più presto la captazione di acque a uso umano da questo lago e l’avvio in tempi rapidi di una drastica riduzione, fino alla completa abolizione, dell’uso di fitofarmaci in tutta la conca del lago di Vico con riconversione al biologico di tutte le attuali forme di coltivazioni agricole in essa presenti e netta riduzione dell’utilizzo di fertilizzanti”.
Contro il piano di espansione dei noccioleti in Tuscia, si è espresso anche il Biodistretto della via Amerina e delle Forre – associazione che riunisce 13 Comuni e molti agricoltori biologici. “Siamo contrari – ha spiegato di recente il presidente Famiano Crucianelli – poiché questa iniziativa trasforma la nostra area in una monocultura e porterà conseguenze economiche, ambientali e sociali preoccupanti. Non possiamo consegnare l’andamento dei prezzi nelle mani delle multinazionali e non è bene alimentare certezze sui contratti con queste aziende, perché potrebbero rivelarsi amare illusioni. È grave l’uso dei pesticidi e della chimica di sintesi e del sovra-sfruttamento delle risorse idriche. È vero che la nocciola rappresenta un’opportunità, ma ad alcune condizioni: occorre fermare la monocultura e favorire la biodiversità e l’agricoltura biologica e consapevole”.
Anche in questo caso, come spesso accade, i conti sono fatti a metà: nel valutare quella che può apparire come un’opportunità economica per la Tuscia e gli agricoltori, non si tiene adeguatamente conto dei costi nascosti – le cosiddette esternalità negative – che finiscono per essere pagate dall’intera società: inquinamento, perdita di biodiversità, costi sanitari, desertificazione dei suoli.
“Anche gli stessi agricoltori – conclude Menicocci – dovrebbero puntare di più sulla loro terra, sulla sua qualità, senza impoverirla con trattamenti chimici ripetuti, con il risultato di trovarsi con terreni desertificati che hanno bisogno di sempre maggiori quantità di fertilizzanti e hanno scarso valore economico, mentre il terreno della mia azienda ha un valore di sostanza organica pari al 3%”.