Dopo il sì della Camera, a larghissima maggioranza, per la legge a sostegno del bio, mentre l’opinione pubblica continua a manifestare con il carrello della spesa la sua opinione (il biologico cresce a due cifre da anni, in netta controtendenza), è spuntata una lettera di ricercatori agronomi, tecnici ed esperti di scienze agrarie che chiede di rivedere la legge in base al seguente ragionamento. L’agricoltura biologica ha una resa minore; tutti i tipi di agricoltura con resa minore portano all’estensione dei campi ai danni delle foreste mettendo a rischio la stabilità climatica; quindi l’agricoltura biologica mette a rischio la stabilità climatica.
È una conclusione che non sta in piedi: parte da una premessa vera e arriva a una conclusione falsa. Il perché lo spiegano esperti e studi di grandi organizzazioni internazionali. La parte vera della premessa è che al momento le rese medie dei campi coltivati con metodi biologici sono leggermente inferiori a quelle dei campi coltivati con largo uso della chimica di sintesi. A questo elemento va però aggiunto il fatto che in Italia il 97% dei fondi di sostegno all’agricoltura vanno a proteggere il convenzionale: maggiori incentivi alla ricerca sul biologico potrebbero ragionevolmente portare a una diminuzione di questo differenziale.
Ma è la parte centrale del sillogismo (più agricoltura bio = più desertificazione) a non trovare conferme. Le cronache mostrano foreste pluviali cancellate dall’espansione della soia ogm, non boschi abbattuti per far posto ai campi bio (che nella maggior parte dei Paesi industrializzati recuperano una quota dei terreni agricoli abbandonati negli ultimi decenni). Senza parlare del fatto che i chili non sono l’unico modo per misurare l’alimentazione: contano anche la qualità e gli stili di vita. Ad esempio una dieta più sana basata su una diminuzione del consumo eccessivo di carne, seguendo le indicazioni dell’Oms, avrebbe un peso positivo molto più importante degli ipotizzati effetti negativi di una moderata espansione dell’area agricola.
Anche perché, e qui entra in ballo il concetto di sostenibilità, il problema non è solo arginare le emissioni serra ma anche difendere gli altri elementi che rendono possibile la nostra vita e il nostro benessere: il ciclo dell’acqua, quello dell’azoto e del fosforo, la protezione dell’ozono stratosferico, la biodiversità. E in tutti questi campi l’agricoltura intensiva è responsabile di un impatto negativo molto più importante di quello dell’agricoltura biologica.
Vogliamo in ogni caso mettere da parte l’idea complessiva di sostenibilità e fare una valutazione quantitativa delle sole emissioni serra in campo agricolo? E in questo caso è ragionevole affermare che l’agricoltura biologica produce un impatto maggiore di quella convenzionale? I numeri dell’Ipcc, il gruppo di climatologi e scienziati coordinato dall’Onu, dicono il contrario: l’agricoltura ad alto impatto ambientale e l’uso attuale di suolo e foreste sono responsabili del 24% delle emissioni totali di gas serra (l’agricoltura dominante è direttamente responsabile dell’11% del totale dei gas serra). Proprio la riconversione all’agroecologia è – sempre secondo l’Ipcc – il rimedio alla malattia provocata da un uso eccessivo della chimica di sintesi nei campi. Mentre la gestione convenzionale dell’agricoltura ha rubato a terreni coltivati e pascoli tra il 25 e il 75% del carbonio che contenevano, l’agricoltura biologica può invertire il processo aumentando il sequestro annuo di carbonio (le stime arrivano a un picco di quasi mezza tonnellata per ettaro l’anno).
Inoltre – aggiunge Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’Area per la conservazione e degli habitat e per l’uso sostenibile delle risorse agro-forestali di Ispra – i sistemi di agricoltura biologica—secondo indagini comparative finora svolte—utilizzano il 45% in meno di energia e producono il 40% in meno di gas serra rispetto all’agricoltura basata su metodi convenzionali. “Il sistema basato sull’agricoltura ad alto uso di chimica di sintesi è insostenibile per almeno tre motivi”, continua Ciccarese. “Primo: richiede alti input di energia per sintetizzare azoto inorganico a partire dall’azoto molecolare presente in atmosfera attraverso processi industriali che consumano il 5% della produzione mondiale di gas naturale e il 2% della fornitura annuale di energia mondiale. Secondo: dipende dall’estrazione di fosforo non rinnovabile, le cui scorte diminuiranno nei prossimi decenni. Terzo: causa un’alterazione del ciclo naturale di azoto e fosforo, permettendo ai due elementi di essere dilavati dal suolo e di inquinare prima le acque dolci e poi quelle costiere, causando la proliferazione algale e l’eutrofizzazione”.
Dunque c’è un effetto negativo immediato prodotto da un eccesso di chimica di sintesi nei campi. Ma guardando al di là dei bilanci annuali, che già rivelano la debolezza strutturale dell’agricoltura intensiva, si scorge un altro problema di prima grandezza: l’impoverimento del capitale naturale su cui si basano l’agricoltura e la sopravvivenza dell’umanità.
Un impoverimento che, secondo i dati che emergono dalla letteratura scientifica, ha una dimensione allarmante che si riassume in una parola: desertificazione. In uno spazio di tempo brevissimo, gli ultimi 40 anni, è stato perso quasi un terzo delle terre arabili del mondo a causa dell’erosione e dell’inquinamento. Questa erosione porta alla rimozione di sostanza organica e argilla, sottraendo nutrienti e liberando CO2 e altri gas serra in atmosfera. I tassi attuali di erosione dei campi arati sono in media da 10 a 100 volte superiore ai tassi di formazione del suolo (ci vogliono 5 secoli per formare 2,5 centimetri di terreno fertile).
È il costo di un sistema che ha drogato il rendimento agricolo a spese del capitale: l’utile immediato risulta un po’ più alto ma porta verso la bancarotta. “Mentre per secoli, nella maggior parte dei casi, la fertilità naturale del suolo è stata garantita da una corretta gestione (lavorazioni leggere, rotazioni e avvicendamenti colturali, sovescio, inerbimento, sistemazioni idraulico agro-forestali, conservazione delle siepi e dei boschetti) e dall’apporto di sostanza organica (letamazione, residui di colture agrarie, sovescio), con le colture agrarie che hanno preso piede dopo la seconda guerra mondiale il quadro cambia”, aggiunge Ciccarese. “La meccanizzazione, le monoculture intensive, l’uso massiccio dell’irrigazione e di input artificiali esterni come i fertilizzanti di sintesi e i pesticidi hanno fatto perdere ai terreni i microrganismi utilizzati dalle piante per estrarre nutrienti complessi e per difendersi dalle avversità. Il suolo in molti casi è diventato un sistema idroponico: un semplice substrato fisico privo di interazione naturali”.
Un’analisi su cui concorda Stefano Bocchi, docente di Agronomia all’Università degli studi di Milano, che in “Zolle” (2015) scrive: “500 milioni di ettari di terre agricole abbandonate hanno perso la loro funzione produttiva ed ecologica. Ripristinando la salute di questi terreni potremmo aumentare non solo la produzione di cibo ma anche il potenziale sequestro di carbonio (…). Le Nazioni Unite hanno stimato che il costo complessivo annuale dei fenomeni di degrado dei terreni raggiunge la cifra di 490 miliardi di dollari, decisamente superiore a quella dei costi della prevenzione. In Europa il costo annuale del degrado dei terreni è pari a 52 miliardi di dollari, 38 miliardi di euro”.
È stata proprio la misura dell’impatto ambientale ed economico dell’agricoltura convenzionale a spingere la Fao a chiedere un radicale cambio di passo. “Il modello della rivoluzione verde, iniziata dopo la seconda guerra mondiale, è esaurito”, ha detto il direttore della Fao José Graziano da Silva durante l’incontro sull’agroecologia organizzato dalle Nazioni Unite a Roma nell’aprile 2018.
“Non si poteva andare avanti guardando solo all’incremento immediato della produttività senza considerare gli effetti di medio e di lungo periodo”, spiega Ewald Rametsteiner, coordinatore del Global Delivery dello Strategic Programme on Sustainable Agriculture della Fao. “Bisogna ancora progredire nella ricerca studiando meglio il modo di incrementare le rese mantenendo basso l’impatto ambientale della produzione agricola. Ma una cosa è certa: la sicurezza alimentare è legata alla difesa degli ecosistemi naturali e deve tener conto degli aspetti sociali, a cominciare dall’occupazione, dal lavoro”.