Nel suo ultimo libro, Storia del mondo a buon mercato (Feltrinelli 2018, coautore Jason Moore), il saggista, docente e attivista indo-britannico Raj Patel ha scritto che nel 2050 graveranno sull’agricoltura i due terzi dei costi dei cambiamenti climatici.
Con l’acuirsi di fenomeni quali siccità, inondazioni, perdita di biodiversità e destabilizzazione degli ecosistemi, i raccolti si ridurranno, e l’attuale sistema agroalimentare globale (produzione, trasformazione, distribuzione, consumo) potrebbe collassare. Vittima di se stesso, peraltro: il suo ingente consumo di combustibili fossili e derivati della petrolchimica si traduce in una quota di emissioni di gas serra pari fra un quarto e un terzo di quelle totali.
Il Manifesto lo ha interrogato sulla relazione circolare di causa-effetto fra cibo e clima, che nel precedente libro I padroni del cibo aveva abbozzato alcune linee guida per svezzare il mondo dalle filiere agroalimentari distruttive: scelta delle produzioni locali in agroecologia, focus sui diritti dei lavoratori, valorizzazione delle campagne, fine dei sussidi all’agrobusiness.
L’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel of Climate Change dell’autunno 2018 (Global Warming 1.5° C) obbliga tutti a riflettere sul contributo di ogni settore all’insostenibilità e sull’inaudita urgenza di un cambiamento. Quale sarà il futuro dei sistemi alimentari?
Come il clima, anche il modello agricolo del capitalismo è nel bel mezzo di una transizione brusca e irreversibile. Possiamo solo decidere quale carattere dare al cambiamento, e quali saranno i suoi tempi. Faremo presto, agendo con determinazione e volontà, oppure ci attiveremo tardi, spinti dal disastro? A seconda della risposta, avremo un mondo molto impoverito dal punto di vista delle specie, e una produttività agricola in picchiata, oppure un allontanamento dai combustibili fossili. Ci sono alimenti la cui produzione richiede più acqua e più suolo e provoca più gas serra di altri; ed è certo che le diete a bassa componente animale e prive di cibi ultra-trasformati sono di gran lunga più sostenibili. Ma attenzione: anche le produzioni vegetali possono essere onerose per il pianeta, nocive per la salute e sfruttatrici nei confronti dei lavoratori della filiera. Gli esempi sarebbero molti. Nella Central Valley della California, specializzata in ortofrutticoltura intensiva, studi recenti hanno rivelato il nesso fra l’esposizione delle madri ai pesticidi e casi di autismo nei loro figli. Inoltre, fra i lavori peggio remunerati sulla Terra ci sono quelli nel sistema agroalimentare globalmente inteso. Quanti poveri e senzaterra in India sono affamati e malnutriti: una dieta senza carne bovina può essere totalmente compatibile con lo sfruttamento e la miseria. L’ingiustizia strutturale in questo mondo non può essere eliminata con le sole scelte di consumo, per quanto queste, ad esempio, siano importanti nel riconoscere quanto gli umani dipendano dalle altre creature viventi.
Nondimeno, secondo l’ultimo rapporto di esperti dell’Onu, la produzione di alimenti animali occupa l’80% delle terre, provoca annualmente l’emissione di 7,1 gigatonnellate di gas serra (il 14,5% del totale) e secondo il trend attuale crescerà del 70% da qui al 2050. I prezzi favoriscono i consumi perché non rispecchiano le esternalità negative di quello che lei chiama «complesso agroindustriale mangimi-bestiame»; è lo stesso per il «cibo spazzatura».
Certo gli Stati uniti, il paese dove mi trovo, sono un cattivo esempio. I sussidi alla produzione di mangimi e agli allevamenti contribuiscono a tenere bassi i prezzi di vendita e alti i consumi. E’ vero che in buona parte del mondo si mangia sempre più carne. Ma non dimentichiamo che se siamo già nel bel mezzo di una catastrofe, è perché Usa ed Europa nel diventare ricchi hanno storicamente accumulato un tale livello di emissioni da alterare il clima. È importante che si abbandonino le produzioni animali intensive, ma niente potrà azzerare la responsabilità storica (e i relativi obblighi) dell’Occidente nello sfruttamento e nella distruzione, puntando magari il dito sulla Cina che mangia molto maiale o sui fiumi di latte bevuti in India. Quanto al sistema dei prezzi che non corrisponde ai costi ambientali reali, uno studio ha confrontato l’impronta ecologica, nel 2010, di diverse grandi aziende – di vari settori – con il loro fatturato. Ebbene, l’impronta dei giganti dell’agroindustria era pari, tradotta in denaro, al 224% del fatturato stesso. Il settore si affida a una potente lobby per evitare normative suscettibili di ridimensionare i profitti. Contrastare questo enorme potere richiede un cambiamento sociale profondo e proteste imponenti, del genere di quelle che abbiamo visto nel Regno Unito con il movimento Extinction Rebellion, ma che abbiano la costanza di andare avanti per anni e anni.
Su “Il Manifesto” tutta l’intervista