Scompare, all’età di 93 anni, Giorgio Nebbia. Pioniere del movimento ambientalista e storico esponente della sinistra indipendente, ha dedicato la sua vita a studiare l’impatto ambientale e la ecosostenibilità. Cambia la Terra lo aveva incontrato qualche tempo fa. Riproponiamo l’intervista raccolta in quell’occasione. Tanti spunti e riflessioni per tutti noi. Buon viaggio, Giorgio.
“La storia dei pesticidi comincia all’inizio del secolo scorso, ma abbiamo ancora molto da imparare sui loro effetti”. Giorgio Nebbia parla guardando i grandi pini che si affacciano sulla finestra della sua casa romana (“Mi ricordano il mare”). E’ uno dei padri dell’ambientalismo italiano. Lo si dovrebbe chiamare “merceologo”, perché questa è la disciplina che ha insegnato all’università di Bari per tanti anni. Ma il termine gli sta stretto: l’analisi delle merci per lui è stata uno strumento per passare in rassegna, dagli anni Cinquanta a oggi, la società italiana e il suo rapporto con l’ambiente; non solo in maniera teorica, ma con la passione dell’impegno che lo ha portato in Parlamento nelle file della Sinistra indipendente e in tanti luoghi di dibattito, a cominciare dal comitato scientifico che ha accompagnato la nascita di Legambiente. Forse la definizione migliore è quella che emerge dal titolo del libro che, in occasione dei suoi 90 anni, un gruppo di studiosi gli ha dedicato: Per Giorgio Nebbia. Ecologia e giustizia sociale.
Molto da imparare, dicevi, ma in un secolo di storia abbiamo anche appreso tanto sui loro effetti.
“Sì, la storia dei pesticidi è interessante perché, seguendo il corso del ventesimo secolo, si intreccia con la storia con la esse maiuscola. La filiera che nasce della chimica organica, quella con il Ddt come emblema, si sviluppa tra le due guerre. Sono sostanze che in quel periodo sembravano assolvere a funzioni miracolose: proteggevano dai parassiti i soldati costretti alla vita di trincea, combattevano la malaria. E’ stata la fase in cui si è imparato a costruire questi prodotti. Poi, piano piano, sono cominciate a emergere le conseguenze”.
Il principio di responsabilità non era stato ancora teorizzato dal filosofo tedesco Hans Jonas. All’epoca la precauzione era solo una clausola dei contratti di assicurazione. Come abbiamo imparato?
“Dagli errori, come spesso accade. Nel secondo dopoguerra si cominciano a scoprire tracce di pesticidi nel cibo che finisce in tavola. E nel 1962 Rachael Carson scrive un libro che farà storia, Primavera silenziosa. È la primavera resa muta dallo sterminio imprevisto di tante forme di vita che costellavano i campi agricoli prima dell’uso massiccio dei pesticidi. Non è finita lì. Le sostanze incriminate cominciano a essere trovate anche nel corpo umano perché si accumulano nei grassi. Ricordo lo scalpore suscitato dal titolone su un grande settimanale anglosassone, accompagnato dalla foto di un seno, in cui si diceva che nel latte umano il contenuto di Ddt era superiore alla soglia massima ammessa. Le mamme erano fuorilegge”.
Queste sostanze risalgono la catena alimentare e si concentrano nei grassi: ogni predatore ne assume più del predato. E visto che siamo i predatori massimi è inevitabile…
“Già, ma questo è il senno del poi. Oggi appare scontato e per questo dico che qualcosa abbiamo imparato nel corso questi decenni. Del resto non siamo gli unici predatori ad aver pagato pegno. L’altro elemento che, più recentemente, ha impressionato l’opinione pubblica è il fatto che a fare le spese dello squilibrio chimico provocato dalle sostanze che interferiscono sul sistema endocrino – e dunque modificano gli ormoni, l’identità sessuale – siano anche gli orsi polari. Lontani da noi ma non immuni dai nostri scarti”.
È scattata la solidarietà di mammiferi, l’identificazione nel rischio. Ma, tornando allo scorrere degli eventi del secolo scorso, cosa è successo dopo l’allarme della Carson?
“È successo che un altro, potente allerta, è venuto dalla cronaca. Nel 1976 avvenne il disastro dell’Icmesa di Seveso, un nome che da allora è stato associato alla fuga di diossina. Scoppiò il reattore che produceva i precursori degli erbicidi con cui era costruito l’agente orange, quello ampiamente usato dagli americani in Vietnam per colpire i guerriglieri: una dimostrazione dell’intreccio tra chimica militare e chimica civile”.
Siamo arrivati agli anni Ottanta. Il decennio dell’atrazina. Uno scandalo che colpì in nodo particolare il Nord Ovest dell’Italia: il Piemonte delle risaie si trovò all’improvviso, in casa, un’acqua da uno strano colore. Era imbevibile anche se l’allora ministro della Sanità Carlo Donat Cattin pensò di cavarsela cambiando la legge invece dell’acqua: aumentò i limiti di tolleranza dell’atrazina negli acquedotti.
“Fu un tentativo maldestro. E da allora contro i pesticidi più impattanti si scatenò una formidabile campagna sostenuta dalle associazioni ambientaliste, quella contro la ‘sporca dozzina’”.
Funzionò?
“Servì a aumentare la consapevolezza attorno a questi problemi. Ma poi è arrivata la stagione degli ogm, piante geneticamente modificate per resistere agli erbicidi. Le multinazionali hanno cominciato a vendere il pacchetto: piante transgeniche ed erbicidi. E le vendite sono schizzate in alto”.
E oggi, come si annuncia il futuro?
“Abbiamo bisogno di maggiore conoscenza per misurare appieno gli effetti dei pesticidi. Ancora non abbiamo informazioni sufficienti, ad esempio, sull’effetto cocktail, cioè sulle conseguenze sanitarie del mix di sostanze che vengono analizzate separatamente ma interagiscono nel nostro corpo”.
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