Dal punto di vista dei numeri la situazione è sconfortante: nonostante gli impegni, le dichiarazioni e la riconversione green di una parte del mondo produttivo, le emissioni di gas serra continuano a crescere a livello globale. Nella settimana di mobilitazione globale indetta dal movimento Fridays for Future, che culmina il 27 settembre, si può però registrare un passo avanti in un settore chiave: la conoscenza. Negli ultimi tre decenni si è assistito a un faticoso pressing della comunità scientifica, del mondo ambientalista e della parte più avvertita dell’opinione pubblica per rendere noto quello che emerge con evidenza dagli studi dei climatologi, dai rapporti delle grandi istituzioni internazionali e dalle analisi dei maggiori enti di ricerca: siamo nel mezzo della crisi climatica e questa minaccia è causata dall’azione dissennata della specie umana.
Per agire in modo efficace è però necessario mettere bene a fuoco il problema e finora si era registrato un buco nell’informazione. L’attenzione era rimasta concentrata sulle responsabilità legate all’industria, al trasporto e all’uso dell’energia negli edifici: per molto tempo di agricoltura si è parlato poco o niente in relazione al cambiamento climatico. Ora due rapporti internazionali colmano questo ritardo. L’Ipcc, la task force climatica dell’Onu, ha reso noto lo “Special Report on Climate Change and Land” e l’Agenzia europea dell’ambiente ha pubblicato “Climate change adaptation in agricultural sector in Europe”.
Questi due studi rovesciano l’immagine dell’agricoltura come attività positivamente collegata alla natura o marginale dal punto di vista dell’impatto ambientale. La realtà è che da più di mezzo secolo l’agricoltura dominante è diventata molto diversa dall’immagine bucolica che spesso le viene attribuita. E’ in prevalenza un’attività fortemente industrializzata, intensiva, con largo uso della chimica di sintesi. Questa agricoltura è tutt’altro che neutrale dal punto di vista climatico. In Europa e nel mondo causa direttamente un decimo delle emissioni serra totali. Se nel calcolo includiamo l’uso del suolo nel suo complesso (cioè la deforestazione e l’allevamento) si arriva quasi a un quarto (23%). E se infine ci prendiamo la briga di inserire nel conteggio anche le attività legate al ciclo di produzione del cibo ci si avvicina a un terzo del totale.
Possiamo affrontare la crisi climatica senza una riconversione dell’agricoltura? Di fronte ai numeri forniti dall’Ipcc e dall’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) la domanda diventa retorica. E questo è più chiaro ai ragazzi che scenderanno nelle strade di tutti i continenti nei prossimi giorni che alla generazione del boom economico abituata all’idea di una crescita lineare infinita, un’idea che si scontra con le conoscenze che il mondo scientifico ha messo sul tappeto in modo inconfutabile.
I climatologi delle Nazioni Unite ci ricordando che circa un quarto della terra libera dal ghiaccio è soggetto al degrado prodotto dall’uomo. Che nell’ultimo mezzo secolo le zone colpite dalla siccità sono cresciute di più dell’1% all’anno. Che nelle terre inaridite tra il 1980 e il 2000 vive mezzo miliardo di persone. Che l’erosione del suolo dai campi agricoli coltivato in modo convenzionale è oltre 100 volte superiore al tasso di formazione del suolo.
In Europa questa crisi climatica causata per un quarto dal cattivo uso del suolo si sta ritorcendo contro l’agricoltura. Se continueremo a fare quello che abbiamo fatto finora, cioè a bruciare combustibili fossili e a puntare su coltivazioni ad alto impatto ambientale, avverte l’Agenzia europea dell’ambiente, “le rese delle colture non irrigate come grano, mais e barbabietola da zucchero diminuiranno nell’Europa meridionale fino al 50% entro il 2050. In uno scenario simile, si prevede che i valori dei terreni agricoli diminuiranno di oltre l’80% in alcune parti dell’Europa meridionale entro il 2100, il che potrebbe comportare l’abbandono della terra”.
Nel 2050 molti leader dei Paesi che, dando fiato a politiche basate sulla negazione dell’evidenza scientifica, si stanno assumendo la responsabilità di una catastrofe planetaria non assisteranno – per motivi anagrafici – alle conseguenze delle loro azioni. Ma la maggior parte dei ragazzi che hanno dato vita al movimento Fridays for Future sarà esposta a quei danni. Per questo, a livello individuale, molti di loro hanno scelto di diminuire i viaggi in aereo, di mangiare cibi biologici, di consumare meno carne, di sprecare meno, di usare energia pulita.
Sono iniziative che hanno bisogno di un sostegno pubblico. In Italia ci sono 19 miliardi di euro di incentivi che ogni anno vanno a premiare le attività ad alto impatto ambientale: reindirizzarli è una priorità. E, come ha documentato Cambia la terra, dell’enorme volume di finanziamenti pubblici che va all’agricoltura solo gli spiccioli servono a sostenere le pratiche delle colture biologiche e dell’agroecologia, cioè le scelte in grado di restituire fertilità al terreno e invertire il trend catturando nel suolo una parte delle emissioni di CO2 che vanno ad accrescere l’instabilità climatica. Sarebbe ora di indirizzare i fondi comuni verso i beni comuni.