Oggi è la Giornata mondiale dell’alimentazione. Sappiamo che, contro il buon senso ambientale, per i ritardi culturali che hanno impedito e ancora impediscono la possibilità di scegliere liberamente il numero dei figli, non riusciremo a fermare la corsa demografica prima di superare, attorno a metà secolo, la barriera dei 10 miliardi di esseri umani. Come nutrirli? Calcolando che non solo aumenta la popolazione mondiale ma, per fortuna, diminuisce la percentuale di persone che non possono accedere a livelli adeguati di alimentazione, le Nazioni Unite calcolano che occorrerà una crescita del 50% della produzione alimentare.
Fin qui tutti d’accordo. Ma da questo punto in poi del ragionamento le strade divergono. C’è chi punta tutto su una strategia settoriale: uno sviluppo delle tecnologie che, in laboratorio, offre grandi speranze perché moltiplica le rese e utilizza l’abbinata tra largo uso della chimica di sintesi e ingegneria genetica per fornire prestazioni crescenti. Questa scelta, legata a un forte aumento delle superfici irrigate, è figlia della rivoluzione cosiddetta verde che nel dopoguerra riuscì a moltiplicare il prodotto dei campi alimentando per anni l’illusione di una vittoria della tecnica a spese della natura.
Oggi però misuriamo le conseguenze di quel limite della conoscenza: il drammatico aumento delle aree aride, l’inquinamento delle falde idriche, l’alterazione del ciclo dell’azoto, il crollo della biodiversità, il contributo al caos climatico hanno mostrato le contraddizioni di quel modello. “Il degrado e la desertificazione del territorio sono aumentati, con punti critici di degrado che coprono circa il 29% del territorio globale, dove risiedono circa 3,2 miliardi di persone”, si legge nel Sesto Global Environment Outlook (GEO-6) dell’Unep, il Programma ambiente delle Nazioni Unite. “Investire nella prevenzione del degrado del territorio e nel ripristino dei terreni degradati ha senso a livello economico e i benefici generalmente superano di gran lunga i costi”.
Oggi occorre dunque una strategia diversa da quella convenzionale, una strategia capace di guardare a un orizzonte più lontano. La direzione da prendere è suggerita dal GEO-6. E si basa su tre elementi: sistemi agricoli diversificati che offrono spazi crescenti all’agricoltura biologica e all’agroecologia; una dieta più equilibrata che riduce il peso della carne (la produzione di bestiame utilizza il 77% dei terreni agricoli); la lotta contro gli sprechi (oggi si perde circa il 30% del cibo prodotto).
“Sono i tre pilastri su cui si deve fondare la strategia per sconfiggere da una parte la fame e dall’altra l’obesità che in questo secolo rischia di diventare una vera e propria epidemia”, spiega Lorenzo Ciccarese, Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’Area per la conservazione degli habitat e per l’uso sostenibile delle risorse agroforestali di Ispra. “In particolare va sottolineato il ruolo di quelli che la Fao chiama sistemi agricoli differenziati. E’ l’assieme delle agricolture su piccola scala e dei sistemi biologici e biodinamici: utilizza il 45% in meno di energia e produce il 40% in meno di gas serra rispetto all’agricoltura praticata con metodi convenzionali”.
In particolare, continua Ciccarese, l’agricoltura biologica ha un ruolo chiave anche per il governo del ciclo dell’azoto e di quello del fosforo che, a livello planetario, rappresentano due macro problemi: “L’agricoltura convenzionale è il principale utilizzatore dei composti azotati che prendono l’azoto dall’atmosfera e lo trasformano in nitrati che poi vengono liberati sotto forma di ammoniaca creando una lunga catena di problemi ambientali e sanitari”.
“È possibile eliminare la fame, prevenire la perdita di biodiversità e arrestare il degrado del territorio combinando misure relative al consumo, alla produzione, allo spreco e alla ridistribuzione del cibo e alle politiche di conservazione della natura”, precisa lo studio Unep. “Gli scenari che raggiungono questi traguardi sociali e ambientali sono in genere caratterizzati da un miglioramento, il 50% più rapido, dei rendimenti agricoli rispetto a uno scenario business-as-usual, ma dipendono fortemente dai cambiamenti nei consumi e dai miglioramenti nella distribuzione di cibo. L’arresto della perdita di biodiversità richiederebbe anche misure relative alla gestione del paesaggio e alle aree protette. Le infrastrutture ecologiche, mentre proteggono la biodiversità, possono anche fare da tampone per gli agricoltori e le comunità rurali e urbane nei confronti degli shock climatici quali siccità e inondazioni, mitigare l’inquinamento delle acque e aumentare l’approvvigionamento idrico. Inoltre, un’agricoltura sostenibile richiede anche la riduzione dello squilibrio di azoto e fosforo per ridurre l’inquinamento dei sistemi di acqua dolce, delle acque sotterranee e delle zone costiere marine”.