Il picco di incendi in Amazzonia che ha seguito l’elezione di Jair Bolsonaro alla presidenza del Brasile ha inevitabilmente attirato l’attenzione dei media sull’attacco che sta subendo la più importante foresta pluviale del pianeta. È un allarme che corrisponde alla portata del rischio: si profila una catastrofe ambientale globale, un’accelerazione drammatica della crisi climatica. Guardare a questo disastro in una chiave esclusivamente ambientale sarebbe però un errore culturale che finirebbe per moltiplicare il danno. Quei roghi di alberi somigliano a quelli dei libri bruciati in Fahrenheit 451 non solo perché è una biblioteca di conoscenze che va in fumo, ma anche perché assieme alla foresta arretrano i diritti civili, l’omofobia diventa sempre più aggressiva arrivando alla censura di testi durante le fiere, i leader scomodi vengono eliminati fisicamente.
C’è un nesso evidente tra la pressione delle ruspe che si fanno strada tra le ceneri di alberi secolari e le stragi degli indios che abitavano tra quegli alberi. Ma c’è un altro nesso meno evidente che sostiene il primo: quello tra i risultati straordinari ottenuti dal mondo occidentale e l’idea di una superiorità a 360 gradi della cultura che li ha espressi. Se non si apre un dibattito su quest’ultima equivalenza, se non si indaga il terreno scomodo di affermazioni da cui non è così facile prendere le distanze, si rischia di lasciare campo libero ai sicari armati dai fazendeiros, i latifondisti che in nome del progresso convertono la foresta pluviale in soia geneticamente modificata. Opporsi alla barbarie dell’assalto ai nativi è certamente un dovere etico, ma conviene chiedersi: quei popoli custodiscono la conoscenza di un diverso rapporto con il mondo di cui sarebbe pericoloso fare a meno?
È uno dei temi che solleva il Sinodo sull’Amazzonia previsto dal 6 al 27 ottobre, una nuova tappa di un pontificato che ha messo la rivisitazione della nostra relazione con la natura al centro degli interessi della Chiesa. Nel documento preparatorio del Sinodo si ricorda che in Amazzonia ci sono tra 110 e 130 popoli isolati, senza contatto con il resto del mondo. E che il loro equilibrio con la natura è messo in crisi dall’inquinamento che arriva dall’esterno. Il testo invita “a preservare e trasmettere i saperi della medicina tradizionale” ricordando che “non sono solo le erbe medicinali e le medicine che aiutano a guarire. L’acqua e l’aria pulite e il cibo sano, frutto delle proprie coltivazioni e raccolte, della caccia e della pesca, sono condizioni necessarie per la salute integrale dei popoli indigeni”.
Ne parliamo con Padre Paolo Benanti, docente di teologia morale ed etica delle tecnologie all’Università Gregoriana. “Con l’enciclica Laudato sì papa Francesco ha espresso la visione della complessità come chiave base di un’ecologia integrale, di un approccio sistemico in cui i diversi saperi sono chiamati a confrontarsi e a cooperare”, afferma Benanti. “Pensare alla vita in modo monodimensionale non funziona perché il tutto è maggiore della somma delle parti: possiamo scomporre e rimontare una macchina, non un essere vivente. Da questo punto di vista la conoscenza tradizionale gioca un ruolo importante”.
D’altra parte l’approccio scientifico che caratterizza da secoli il mondo occidentale ha portato benefici a cui sarebbe irragionevole pensare di rinunciare. E questo approccio richiede un metodo che non può essere negoziato perché i risultati ottenuti dipendono dal rigore nella sua applicazione. “Per questo è importante il Sinodo sull’Amazzonia, un luogo che si comprende solo con uno sguardo sistemico capace di contemplare il tutto”, osserva Benanti. “C’è una frase famosa di Einstein, quella in cui dice che non si può risolvere il problema con la stessa mentalità che lo ha creato. Sarebbe ingenuo pensare di poter risolvere i problemi senza l’ausilio della scienza e della tecnologia, ma guardare al vissuto delle persone serve a comprendere la direzione che vogliamo dare al cambiamento. Senza questa indagine sulle finalità l’idea di progresso perde senso. Una bomba atomica rappresenta un grande progresso rispetto a una bomba tradizionale, ma è anche sviluppo umano?”
Da questo punto di vista anche la politica deve interrogarsi perché se diventa totalmente dipende da una narrazione a sua volta totalmente dipendente da un indice di gradimento di brevissimo periodo può smarrire la rotta. E questo – osserva il docente della Gregoriana – vale anche in campo agricolo: “Se noi spingiamo l’acceleratore sulla produzione senza tener conto del contesto, per esempio utilizzando gli ogm, cosa otteniamo? Può darsi che la ricchezza sul momento aumenti, ma non si distribuisce in modo più equo, tende a concentrarsi in sempre meno mani. Il progresso ha senso quando si integra nell’orizzonte di un futuro sognato assieme. E in Amazzonia questo vuol dire ascoltare la voce delle popolazioni che abitano la foresta, non annichilire la cultura e la sapienza locali”. Cioè dare spazio alla diversità culturale oltre che a quella biologica.
Dunque un’alleanza e non una contrapposizione tra scienza e conoscenza empirica. “Oggi si producono sementi di grano con rese molto alte; spesso però queste sementi vanno a rimpiazzare quelle tradizionali, magari meno performanti ma sopravvissute a migliaia di anni di storia e a diverse aggressioni climatiche: hanno una grande varietà genetica e possono offrire una risposta a bisogni che in questo momento non riusciamo a vedere o che riusciamo solo a intravedere”, continua Benanti. “E’ un retaggio del passato che può essere utile alla biologia più avanzata, può offrire risposte importanti nelle sfide che abbiamo di fronte, come la crisi climatica e la fame.”