“Esternalità positive”: un bel rovesciamento di prospettiva. Chi si occupa di questioni economiche e ambientali ha infatti dimestichezza con l’espressione “esternalità negative”. Significa che molte aziende traggono profitti da attività che causano danni ambientali. Questi danni, purché siano nei limiti di legge, vengono conteggiati nei bilanci pubblici, cioè sono a carico della collettività, mentre i profitti restano privati. E tutto ciò avviene perché, come suggerisce il termine “esternalità”, si tratta di effetti che non vengono direttamente connessi con l’attività madre. Vengono percepiti come danni collaterali perché la giurisprudenza non ha ancora inglobato una conoscenza sufficientemente approfondita della fitta rete di relazioni che lega attività umane ed ecosistemi.
Ma esiste anche il ragionamento contrario, che Massimo Mercati, amministratore delegato di Aboca, sottolinea nel suo “L’impresa come sistema vivente”, appena pubblicato. Ecco come Mercati definisce le “esternalità positive”: “Indicatori dell’impatto positivo che certe attività possono avere sull’ambiente e la società. Pensiamo all’incremento della biodiversità che deriva dalle tecniche agricole biologiche, agli impatti positivi sull’ambiente derivanti da una corretta gestione del ciclo dei rifiuti nell’economia circolare. In tutti questi casi l’attività appare rigenerativa, cioè non solo capace di limitare gli effetti dannosi su ambiente e società ma addirittura di produrne di positivi”.
E’ un salto di prospettiva stimolante perché consente di passare dalla denuncia alla proposta. Sottolineare i danni prodotti dall’economia basata sui combustibili fossili e sulla crescita lineare è condizione necessaria ma non sufficiente per governare la fase attuale, quella della transizione green. Per rendere vincente la nuova prospettiva bisogna indicare con chiarezza i benefici che ne derivano e la loro distribuzione.
Nel caso dell’agricoltura biologica i vantaggi economici possono diventare rapidi e immediati. A patto di uscire da quello che Mercati chiama il “paradosso dell’agricoltura biologica”. Oggi, a fronte di un uso dei pesticidi di sintesi che produce un preoccupante livello di inquinamento delle falde idriche, a pagare buona parte delle esternalità negativa prodotte è il produttore bio costretto all’iter oneroso della certificazione per testimoniare non la sua azione ma la sua non azione, cioè il fatto di non avere usato pesticidi di sintesi per coltivare.
E per evitare il rischio di contaminazione è ancora il produttore bio a pagare: “Un agricoltore biologico che si trovi a confinare con un agricoltore convenzionale deve arretrare le proprie coltivazioni di almeno cento metri per poter garantire l’assenza di contaminazione delle sostanze tossiche usate dal vicino. Ma che senso ha tutto questo? Sarebbe più corretto che fosse il vicino, che opera in agricoltura convenzionale, a dover garantire la non contaminazione degli altri, a dover arretrare per eseguire i trattamenti all’interno della sua proprietà evitando di contaminare i confinanti”.
Dietro il caso specifico dell’agricoltura biologica c’è una questione molto più ampia e radicale. C’è la differenza tra un’impresa organizzata unicamente per la massimizzazione del profitto e un’impresa che vuole crescere nel contesto, cioè assieme alla sua comunità, nella stessa logica di simbiosi con l’ambiente che appartiene alla vita. Certo il primo tipo di impresa può apparire avvantaggiato perché corre rispettando solo i limiti di legge, anche nei casi in cui il senso comune è già oltre ed è partito il processo di adeguamento normativo (che a volte può richiedere anche tempi molto lunghi). Ma questo modo di intendere l’impresa è soggetto a molti rischi. Può perdere consenso. Oppure possono essere i tribunali a mettere i conti in pari inglobando nelle sentenze le nuove conoscenze sui danni creati da aziende orientate unicamente al profitto.
Viceversa un’impresa che fa sua la logica del sistema vivente tende ad estendere i benefici prodotti dalla sua attività non solo ai clienti ma anche ai territori interessati, che vengono rigenerati attraverso la produzione di nuovo valore nel lungo periodo. E’ un’impresa intrinsecamente più solida.
Un salto culturale di questo tipo porta alla richiesta di un adeguamento da parte dei decisori pubblici. “Non è sufficiente incentivare chi deve smettere di inquinare”, scrive Massimo Mercati. “Bisogna sostenere chi contribuisce in concreto alla biodiversità adottando un modello di impresa realmente rigenerativo, strutturalmente pensato per avere un impatto positivo su ambiente e società”. Se nei conti si cominciano a mettere non solo i danni ma anche i benefici prodotti, la valutazione dell’operato delle imprese cambia radicalmente.
Massimo Mercati, L’impresa come sistema vivente, edizioni Aboca, pag. 155, euro 14