In media oggi un cittadino statunitense spende meno del 10% del proprio reddito per acquistare cibo. Una percentuale che negli ultimi decenni si è sempre più ridotta. Se nel 1960 infatti era attestata intorno al 17%, nel 2000 è scesa al 9,9%, rimanendo poi praticamente invariata fino ad oggi. Ma con una differenza: negli ultimi 20 anni è cresciuta la quota di denaro speso per comprare cibo da consumare fuori casa, mentre è diminuita quella destinata agli alimenti da consumare a casa, spesso più sani.
Una tendenza, quella rilevata dall’indagine USDA (United States Department of Agriculture), che non riconosce il valore del cibo, la necessità di pagare un prezzo degli alimenti giusto sia per chi li produce che per chi li consuma. Scegliere solo in base al prezzo – una variabile evidentemente fondamentale – nasconde un inganno: credere di acquistare un cibo economico e al contempo di qualità. In realtà si tratta di alimenti che hanno un prezzo alto sia per le ricadute ambientali che determinano sia per la salute di chi li consuma.
Spesso infatti il cibo che costa troppo poco è povero di nutrienti, fibre e vitamine e ottenuto con materie prime scadenti. Al contrario è ricco di grassi, zucchero e sodio e ad alto contenuto calorico. E’ junk food: riempie ma non nutre e spesso aumenta il rischio di sviluppare patologie, prima di tutte obesità, diabete e cardiopatie.
Un’indagine di alcuni anni fa evidenziava una relazione inversa a prima vista inspiegabile: laddove si spende meno per il cibo, aumentano le calorie consumate pro capite (Recoverybrand).
Uno statunitense in media consuma ogni giorno 3.639 calorie al giorno, circa 1.000 in più rispetto a quelle ritenute necessarie dall’Organizzazione mondiale della sanità. E purtroppo questo eccesso di calorie si traduce in obesità. La percentuale di obesi, infatti, è pari al 33% degli uomini e quasi al 36% delle donne americane.
Consumato nei Paesi più poveri e nelle fasce più deboli, il cibo spazzatura segna la linea di demarcazione delle diseguaglianze sociali, il divario tra chi può e chi non può accedere a un’alimentazione più sana (e spesso costosa). La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha evidenziato la maggiore prevalenza di casi di obesità tra le fasce di popolazione socio-economicamente più svantaggiate. Tra il 1975 e il 2014 nel mondo il tasso di obesità è salito dal 4,5% al 12,8%. Globalmente oggi più di un terzo degli adulti è sovrappeso a causa di una cattiva alimentazione. Inoltre, due su tre di queste persone a rischio obesità vivono nelle nazioni più povere del mondo.