Allevamenti intensivi e agricoltura sono insostenibili: stanno consumando una volta e mezza le risorse naturali dei terreni agricoli italiani. A rilevare per la prima volta questo deficit uno studio condotto da un team di ricerca dell’Università degli Studi della Tuscia che, assieme a Greenpeace Italia, si è interrogata sulla reale sostenibilità degli allevamenti italiani, misurandone il bilancio ecologico. Caso emblematico la Lombardia dove i soli allevamenti consumano il 140% delle risorse agricole.
“In Italia il sistema agricolo e quello zootecnico sono, nel loro insieme, insostenibili e creano un deficit fra domanda e offerta di risorse naturali”, spiega Silvio Franco, docente del Dipartimento di Economia, Ingegneria, Società e Impresa dell’Università della Tuscia. Focalizzandosi sugli allevamenti, “e facendo una stima conservativa” ci tiene a sottolineare l’autore dello studio, il settore zootecnico utilizza il 39% delle risorse delle aree agricole italiane solo per compensare le emissioni di gas serra provenienti dai capi allevati. “Inoltre, l’impatto ambientale dell’insieme delle attività di coltivazione e di allevamento – spiega il docente – è pari a circa una volta e mezza le risorse naturali messe a disposizione dai terreni agricoli italiani”. Un sistema, quindi, “nel suo complesso insostenibile, all’interno del quale la zootecnia gioca un ruolo rilevante”.
Il metodo utilizzato nello studio è quello dell’impronta ecologica, un indicatore in grado di esprimere l’impatto di un dato settore (in questo caso gli allevamenti), confrontandolo con la capacità del territorio di fornire risorse per compensare tali attività (nel caso specifico, compensare le emissioni degli animali allevati). In questo modo, si riesce a calcolare quanto ogni settore sia sostenibile. Uno strumento che, sottolinea il docente, “ha dei limiti ma che è ritenuto a livello internazionale uno dei più efficaci per la valutazione della sostenibilità ambientale delle attività economiche”.
“Il bilancio ecologico del sistema colturale italiano mostra come le sole coltivazioni (sia per il consumo umano che per l’alimentazione animale) esauriscono già la totalità delle risorse naturali presenti nei territori agricoli. La biocapacità del sistema agricolo è in grado di compensare quasi totalmente l’impatto delle proprie attività, alle quali si aggiunge però il “peso” di quelle zootecniche, basate peraltro su una stima “conservativa” del reale impatto degli allevamenti.
Infatti, dati alla mano lo studio dell’Università della Tuscia conteggia esclusivamente le emissioni dirette di gas serra del bestiame causate da fermentazione enterica e deiezioni. Non tiene conto, invece, né dell’impatto ambientale delle coltivazioni destinate ad alimentare gli animali né dell’import di mangimi. Per avere la cifra dell’impronta ecologica complessiva della zootecnia, si legge sullo studio, dovrebbe “essere considerato anche il ruolo delle colture destinate all’alimentazione del bestiame, il cui impatto dovrebbe essere scorporato da quello delle coltivazioni e aggiunto a quello della zootecnia”. Insomma, se l’impronta ecologica del settore agricolo è così ampia lo si deve in larga misura anche al ruolo determinante della zootecnia. Un’Italia non basta. “Per bilanciare le emissioni di agricoltura e zootecnia avremmo bisogno di quasi una volta e mezzo le risorse naturali dei terreni agricoli italiani”, conclude il docente.
Oltre al caso limite della Lombardia, dove il settore zootecnico sta divorando il 140% della biocapacità agricola della regione, emerge il Veneto, dove gli allevamenti consumano il 64% delle risorse naturali agricole, e il Piemonte (56%). In Emilia-Romagna, invece, il consumo è del 44% non perché il numero di capi allevati non sia elevato, ma perché la superficie agricola è molto ampia. Da notare che più della metà dell’impronta ecologica del settore zootecnico dipende dalle regioni del Bacino Padano. Dando uno sguardo al sud, prima per consumo tra le regioni del Mezzogiorno è la Campania (52%), specializzata in zootecnia bufalina.
Quindi in Italia agricoltura e allevamento consumano più risorse naturali di quante il territorio agricolo sia in grado di rigenerare. Come è possibile consumare più risorse di quelle presenti nel territorio? Da dove le prendiamo? “Le sottraiamo alle generazioni future – precisa il curatore dello studio – stiamo regalando a chi verrà dopo di noi una serie di problematiche ambientali senza dare loro le risorse per riuscire a gestirle”. Per risolvere questo deficit “si deve ridurre il consumo delle risorse”, precisa il docente. Andando nel dettaglio, “sicuramente l’allevamento, soprattutto di vacche da latte, genera una domanda di risorse elevata. In questo e altri casi, l’adozione di tecniche di allevamento meno impattanti sarebbe una leva importante”. In generale, comunque, “è necessaria una maggiore attenzione alle implicazioni ambientali delle attività zootecniche, sia da parte degli attori economici che dei decisori politici”.
Sempre più istituzioni scientifiche, infatti, indicano nella riduzione di produzione e consumo di prodotti di origine animale la strada per rendere più sostenibile il settore zootecnico e affrontare la crisi climatica. “In tutti i Paesi europei almeno l’80% delle emissioni di CO2 equivalente del settore agricolo è dovuto agli allevamenti. Per limitare questo contributo si devono usare tutti gli strumenti disponibili, tra cui anche la riduzione dei capi”, commenta Adrian Leip, dell’Unità Food Security del JRC (Centro comune di ricerca), servizio scientifico interno della Commissione europea. Ma un taglio dei capi deve essere collegato a una “diminuzione della domanda di carne. Diete a basso consumo di prodotti di origine animale possono aiutare a ridurre le emissioni globali tra 3 e 8 miliardi di tonnellate CO2 l’anno”, precisa il JRC citando un recente rapporto dell’IPCC.
Anche secondo Riccardo De Lauretis di Ispra, “una maggiore attenzione agli aspetti collegati a salute e alimentazione può comportare un vero e proprio cambiamento di sistema, che porti a produrre, ma anche a consumare meno”.
E un cambiamento di sistema l’Europa sta cercando di metterlo in campo. Si tratta della Long term strategy, un piano strategico nel quale gli Stati europei sono tenuti a definire gli interventi da mettere in atto per ridurre le proprie emissioni di gas serra entro il 2050. “Le strategie devono essere presentate entro il primo gennaio 2020”, prescrive la Commissione europea. Si possono leggere le proposte di Germania, Francia, Belgio, Grecia, Olanda e Austria, per citarne alcune. Ma del documento italiano non c’è traccia.