L’Italia si prepara alla partita del Recovery Fund con un progetto che, in sostanza, ignora un quarto delle cause del problema climatico. Nelle 124 pagine della bozza del “Piano nazionale di ripresa e resilienza Next Generation Italia”, all’agricoltura vengono infatti dedicate poche righe con la generica definizione “agricoltura sostenibile e di precisione”. E l’attenzione – si fa per dire – si concentra sugli interventi che “mirano all’efficientamento energetico e all’isolamento termico/coibentazione degli immobili adibiti a uso produttivo nel settore agricolo e zootecnico” e a un “piano per la logistica del comparto agricolo, che si sostanzia in contributi alle aziende per abbassare l’impatto ambientale del sistema dei trasporti”.
Insomma sembrerebbe che il problema dell’agricoltura dipenda da qualche stalla mal coibentata e da una logistica che va migliorata. Tutto qui. La parola “agroecologia” non compare. Di agricoltura biologica non si parla mai. Il termine “biodiversità” è sconosciuto.
Se questa è la base per costruire i progetti attraverso i quali l’Italia deve accedere a un finanziamento complessivo da 209 miliardi di euro si può dire che almeno per un settore partiamo male. E questo settore non può essere considerato trascurabile. Non in un piano che, come ha chiaramente detto l’Unione europea, per oltre un terzo deve essere legato a finalità ambientali e che per il rimanente non può sostenere scelte che danneggiano l’ambiente.
Come abbiamo più volte documentato, circa un terzo delle emissioni serra è legato al cibo e quasi un quarto può essere direttamente ricondotto all’agricoltura e all’uso del suolo.
Parliamo quindi di un fattore centrale nella spinta antropica che sta cambiando il clima. Un problema che, con tutta evidenza, non può essere risolto limitandosi a progettare la ristrutturazione degli edifici di servizio del sistema produttivo. Oggetto principale dell’intervento non può che essere il sistema produttivo stesso. Sistema che certamente può essere affinato attraverso l’uso di strumenti tecnologici legati alla cosiddetta agricoltura di precisione, ma che – per essere risanato dal punto di vista climatico e ambientale – richiede interventi strutturali.
In che direzione? Nella direzione indicata dalla Fao che già nel febbraio 2018 aveva dichiarato esaurito il modello dell’agricoltura industriale intensiva a causa dell’enorme impatto ambientale prodotto dall’uso massiccio di fertilizzanti chimici e pesticidi. Un’overdose chimica che ha contribuito al deterioramento della terra, alla contaminazione dell’acqua e alla perdita di biodiversità senza riuscire a garantire un reddito adeguato agli agricoltori.
La stessa Fao, sempre due anni fa, in occasione della Giornata per la difesa del suolo aveva lanciato un appello per il rilancio dell’agroecologia. E da allora gli appelli a un’estensione dell’agricoltura biologica e biodinamica si sono moltiplicati, Fino ad arrivare alla strategia Farm to Fork con cui l’Unione europea ha fissato obiettivi ambiziosi al 2030: riduzione dell’uso dei pesticidi e dei fertilizzanti del 50%; riduzione delle vendite di antimicrobici per gli animali da allevamento; destinazione di almeno il 25% del territorio agricolo dell’UE a biologico.
Tra questi obiettivi e le indicazioni della bozza di piano italiano c’è un abisso. Per colmarlo conviene spostare l’attenzione dalle mura dalle stalle al contenuto. Cioè agli allevamenti intensivi che sono una causa importante di inquinamento delle acque e di emissioni serra. Conviene cominciare a preoccuparsi della vitalità del terreno e delle tecniche necessarie per preservarla. Del ruolo della biodiversità nella difesa del suolo fertile.
Cioè di agricoltura biologica. C’è ancora tempo per correggere la rotta. Ma bisogna fare presto per evitare di sprecare il Recovery Fund e di perdere l’aggancio con la prossima generazione.
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