Tutelare la biodiversità presente nel suolo è fondamentale per mantenere un terreno sano e vivo, in grado di garantirci il cibo e l’accesso ai principali servizi ecosistemici. E’ il tema della Giornata mondiale del suolo organizzata dalla Fao che quest’anno è centrata sull’importanza degli organismi presenti nel suolo. Da loro dipende la maggior parte dei servizi ecosistemici terrestri, compresi la produzione alimentare, la raccolta e la depurazione dell’acqua, il ciclo dei nutrienti, il sequestro del carbonio, le medicine.
Il terreno infatti è una risorsa vivente, che ospita più di un quarto della biodiversità del nostro pianeta. Ma i suoli appaiono sempre più impoveriti dall’agricoltura intensiva e desertificati a causa di fenomeni legati ai cambiamenti climatici. Ne abbiamo parlato con Salvatore Ceccarelli, agronomo genetista di fama mondiale.
Bisogna prima di tutto proteggere quello che c’è sopra: le piante con la loro biodiversità. Purtroppo oggi il suolo non è più considerato un supporto pieno di vita, ma un contenitore vuoto al quale ogni anno aggiungere ciò di cui le piante coltivate hanno bisogno. Così si eccede. Alcuni dati scientifici pubblicati qualche anno fa hanno dimostrato che il 50% dell’azoto che si utilizza in agricoltura come concime non viene assorbito dalle piante e rimane nel terreno, finendo nelle falde e quindi nell’acqua che beviamo. Questo uso spropositato di sostanze chimiche come i fertilizzanti in agricoltura intensiva, oltre a produrre danni alla nostra salute, ha di fatto sterilizzato i terreni. Li ha impoveriti, rendendoli spesso incapaci di trattenere l’acqua che li bagna. Mentre invece il suolo deve restare vivo.
Riportando sostanza organica nel terreno come fanno l’agricoltura biologica e quella biodinamica. Non dobbiamo dimenticare che c’è un rapporto continuo tra la biodiversità che sta sopra il suolo e quella che sta sotto. In Siria molti anni fa vidi dei campi dove le piante di orzo e frumento erano alte al massimo 20 centimetri. Poi però si vedevano nei campi delle chiazze verdi di diametro di circa un metro e mezzo dove le piante invece crescevano rigogliose e alte fino a 70/80 centimetri. Bene, queste piante erano tutte cresciute sui nidi delle formiche. In pratica le formiche, scavando i loro cunicoli, nel terreno assicuravano alle piante una maggiore capacità di arrivare all’acqua con radici più profonde. Risultato: queste piante sui formicai producevano quattro volte più delle altre.
Occorre cambiare l’approccio: l’agroecologia è la sola strategia che abbiamo per difendere il suolo. Di recente è stato dimostrato che 250 specie di piante infestanti sono riuscite a sviluppare resistenza a 160 principi attivi. D’altronde – e chi si occupa di queste cose lo sa – le piante per evitare di essere sterminate fanno quello che possono, ovvero producono tantissimi semi. Alla fine alcuni di questi semi riescono a sviluppare resistenza a quello specifico prodotto. Questo vuol dire che l’anno dopo il terreno sarà pieno di queste piante resistenti e l’agricoltore a quel punto sarà costretto a usare ancora più erbicida. O a usarne uno più potente. Ed è il terreno a pagare le conseguenze, impoverendosi sempre di più.
Da alcuni anni stiamo pensando a un esperimento con l’obiettivo di verificare i benefici che si producono nel terreno coltivando un campo di grano, di orzo e di riso fatto di piante tutte diverse anziché come si fa ora di piante tutte uguali. Piante tutte uguali in altezza vuol dire piante che hanno la stessa uniformità anche nelle radici, ovvero raggiungono la stessa profondità. Questo vuol dire che il tratto di terreno fino a quella profondità viene completamente privato di qualunque sostanza nutritiva. Al contrario se si coltivano sullo stesso terreno piante con diverse altezze, visto che esiste una relazione tra l’altezza della pianta e la lunghezza delle radici, queste esplorano il terreno a diverse quote e interagiscono in maniera più completa con la microflora del suolo.
Voglio aggiungere che le soluzioni più efficaci in un’agricoltura virtuosa sono quelle capaci di ripristinare i dei meccanismi biologici. Penso alle popolazioni evolutive costituite da piante tutte diverse che s’incrociano fra loro. Il seme che l’agricoltore raccoglie non è uguale a quello che ha seminato ma è quello che biologicamente si è sviluppato in quel contesto. È il più adatto a quel contesto, a quel terreno e si adatta gradualmente al cambiamento climatico. E non costringe chi coltiva ad acquistare dalle multinazionali ogni anno semi non adatti al suo modo di fare agricoltura, al suo terreno. Semi che richiedono pesticidi e fertilizzanti. Distruggendo il terreno.