Il prossimo dicembre scade l’autorizzazione all’uso del glifosato in Europa. Sono passati, infatti, 5 anni dalla battaglia condotta sull’erbicida più diffuso al termine della quale l’Ue decise comunque di prolungarne l’impiego: 5 anni anziché 10. Definito dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) “probabilmente cancerogeno” – parere non condiviso da due agenzie europee (Efsa e Echa) – il glifosato è l’erbicida più usato in agricoltura da circa mezzo secolo. Ma il boom si è registrato a partire dall’introduzione, negli anni Novanta, delle colture Ogm resistenti a questo erbicida: da allora l’utilizzo di glifosato è aumentato di 15 volte.
“All’inizio era presentato come un erbicida ecologico perché ha tempi di degradazione rapidi” spiega in un’intervista a HuffPost Paolo Barberi, il docente della Sant’Anna di Pisa che da 30 anni studia la resilienza dei sistemi agricoli. “Ma il quadro è cambiato a partire dal 1996, cioè da quando è stata ingegnerizzata la prima soia resistente al glifosato. Nel tempo le colture transgeniche ingegnerizzate con l’inserimento del gene per la resistenza al glifosato sono diventate 6: soia, mais, colza, cotone, barbabietola ed erba medica”.
Con il risultato che se prima il glifosato veniva usato solo prima o dopo il ciclo di crescita della pianta, adesso poteva venire impiegato anche con la pianta in campo. Inoltre, prosegue Barberi “visto che si degrada velocemente, per mantenerlo attivo viene spesso applicato anche 3 o 4 volte durante le fasi di crescita della coltura. Il che ha determinato una forte accelerazione della selezione della flora infestante. Al momento sono state trovate 56 specie di erbe infestanti che hanno sviluppato resistenza a questo erbicida“.
Tra i numerosi studi che sono stati realizzati in questi anni particolarmente interessante la ricerca condotta dalla Scuola Superiore Sant’Anna e dall’Università di Pisa e pubblicata su Agronomy for Sustainable Development finalizzata a ridurre/eliminare l’impiego di glifosato.
Nell’esperimento descritto si è intervenuti su una rotazione tipica del Centro Italia: frumento, poi una coltura mirata a occupare il terreno con una vegetazione in grado di evitare o limitare l’espansione delle piante infestanti; e infine un’altra coltura destinata a produrre reddito, il girasole. La coltura di copertura scelta è stata la veccia, perché è una leguminosa che dà azoto al terreno aumentandone la fertilità.
Nei sistemi tradizionali con colture di copertura senza lavorazione del terreno, il girasole viene seminato dopo aver sfalciato la coltura di copertura e aver applicato il glifosato, che serve per limitare la ricrescita di questa coltura quando il girasole è in campo. “L’alternativa che abbiamo studiato”, chiarisce Barberi. “è una macchina, un rullo sagomato in maniera tale da schiacciare la vegetazione e sfibrarla per impedire che ricresca. E’ un rullo che si può comprare, ma abbastanza semplice ed economico da poter anche essere costruito in un’azienda agricola”.
Nell’esperimento, dopo aver passato il rullo, in alcuni casi si è utilizzato il glifosato e in altri no. Quando gli interventi sono stati condotti nel momento in cui il 70% delle piante di veccia erano fiorite il risultato è stato più che soddisfacente. Il sistema senza uso di glifosato è risultato efficace sia dal punto di vista produttivo che economico. Questo sistema può essere adattato a molte altre tipologie di rotazioni, anche con colture ortive.