Il degrado del suolo costa un decimo del Pil globale

L’effetto combinato del degrado del suolo, dell’uso massiccio di pesticidi e dei cambiamenti climatici minaccia il benessere dei due quinti dell’umanità, avverte un rapporto intergovernativo. L’alternativa al disastro ambientale è un’agricoltura rispettosa dell’ambiente

di Goffredo Galeazzi


Il degrado del suolo causato dalle attività umane mina il benessere di almeno 3,2 miliardi di persone, costa oltre il 10% del Prodotto lordo globale annuo, produce una perdita di biodiversità e mette in pericolo la sicurezza alimentare. E’ l’allarme contenuto in un rapporto redatto da un centinaio di esperti di 45 Paesi pubblicato il 26 marzo. Lo studio, “la prima valutazione globale basata sull’evidenza del degrado e del ripristino del territorio”, è stato prodotto dalla piattaforma scientifico-normativa intergovernativa sulla biodiversità e servizi ecosistemici (Ipbes) avviata nel 2012 dall’Unep, il programma delle Nazioni unite per l’ambiente.

Tra poco più di tre decenni, circa 4 miliardi di persone vivranno in aree aride. “A quel punto, è probabile che il degrado del suolo sia accompagnato da problemi strettamente correlati ai cambiamenti climatici, costringendo a emigrare circa 700 milioni di persone. La diminuzione della produttività del suolo rende inoltre le società più vulnerabili all’instabilità sociale, in particolare nelle aree aride, dove negli anni, con precipitazioni estremamente scarse, si è verificato un aumento dei conflitti violenti”.

“Entro il 2050, si prevede che la combinazione del degrado del suolo e dei cambiamenti climatici ridurrà i raccolti globali in media del 10%, e fino al 50% in alcune regioni. In futuro, la maggior parte del degrado si verificherà in America centrale e meridionale, nell’Africa subsahariana e in Asia, le aree con la maggior quantità di terra dedicata all’agricoltura”, si legge nel rapporto.

Gli esperti spiegano che il degrado del suolo in corso a livello mondiale è causato da stili di vita ad alto consumo nelle economie più sviluppate, combinato con l’aumento dei consumi nelle economie in via di sviluppo ed emergenti. Fino al 2014 oltre 1,5 miliardi di ettari di ecosistemi naturali sono stati convertiti in terre coltivate. Meno del 25% della superficie terrestre è sfuggito agli impatti sostanziali dell’attività umana e gli esperti IPBES stimano che entro il 2050 questa percentuale sarà stata ridotta a meno del 10%.

Per soddisfare le esigenze di questo “stile di vita ad alto consumo”, aumentano i terreni coltivati ​​e i pascoli, portando a pratiche agricole e forestali insostenibili e, in aree specifiche, a un aumento dell’espansione urbana, dello sviluppo delle infrastrutture e dell’industria estrattiva. Il rapporto rileva inoltre che il degrado del suolo contribuisce in maniera rilevante al cambiamento climatico, con la sola deforestazione che contribuisce a circa il 10% di tutte le emissioni di gas serra prodotte dall’uomo. E i cambiamenti climatici possono esacerbare gli effetti del degrado del territorio e ridurre la redditività di alcune opzioni, spiegano gli esperti. La relazione afferma che la crescente domanda di cibo e biocarburanti porterà probabilmente al continuo aumento di input chimici e sostanze nutritive e a un passaggio a sistemi di produzione industriale di bestiame, mentre si prevede che l’uso di pesticidi e fertilizzanti raddoppierà entro l’anno 2050.

A causa di condizioni atmosferiche più estreme, si prevede un impatto micidiale di questo sistema produttivo sempre più “spinto”: “Tra gli altri effetti, un’erosione accelerata del suolo su terreni degradati, un aumento del rischio di incendi boschivi e cambiamenti nella distribuzione di specie invasive, parassiti e agenti patogeni”.

Un altro fattore importante del cambiamento climatico è il rilascio di carbonio precedentemente immagazzinato nel terreno, con un degrado del suolo tra il 2000 e il 2009 responsabile di emissioni globali annue fino a 4,4 miliardi di tonnellate di CO2. Data l’importanza delle funzioni del suolo nell’assorbimento e nello stoccaggio del carbonio, le misure per evitare, ridurre e invertire il degrado del suolo potrebbero fornire oltre un terzo della mitigazione dei gas a effetto serra richiesta entro il 2030 per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia dei 2 °, come stabilito nell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, aumentare la sicurezza alimentare e idrica e contribuire ad evitare conflitti e migrazioni.

A meno che non vengano intraprese azioni urgenti e concertate, “il degrado del territorio peggiorerà di fronte alla crescita demografica, al consumo senza precedenti, a un’economia sempre più globalizzata e ai cambiamenti climatici”, avvertono gli esperti.

Ma la situazione non è irreversibile, assicurano i ricercatori. La soluzione consiste in una gestione sostenibile del territorio, che significa rimboschimento, cambiamenti nelle pratiche agricole che porterebbero a un minor utilizzo di del numero di pesticidi nonché a costi e benefici a lungo termine.

“In Europa la principale causa del declino della biodiversità è il modello agricolo dominante, basato sull’impiego di agenti chimici (insetticidi, erbicidi, fertilizzanti sintetici). In America i principali fattori distrutti sono le immense monocolture di soia e mais”, ha scrtto Le Monde commentando il rapporto. Secondo gli esperti, “i guadagni a breve termine derivanti da una gestione non sostenibile della terra si trasformano spesso in perdite a lungo termine”. In media, i benefici del ripristino dei terreni sono 10 volte più vantaggiosi dei costi del degrado, con una serie di effetti a catena: “I vantaggi del ripristino includono, ma non sono limitati a, aumento dell’occupazione, aumento della spesa aziendale, miglioramento della parità di genere, aumento degli investimenti locali nell’istruzione e miglioramento dei mezzi di sostentamento “.

Ma il tempo scarseggia: “È necessario un urgente cambiamento dello sforzo per prevenire il degrado irreversibile del territorio e accelerare l’attuazione delle misure di ripristino”.

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