Cambio di rotta: il secondo Congresso internazionale sull’agroecologia apre un nuovo capitolo che rivoluzionerà i metodi di produzione agricola su scala mondiale.
Jandira Moreno
La Fao sposa l’agroecologia e non per scelta: è l’unica strada percorribile per rispettare i Sustainable Development Goals che l’Onu si è impegnata a raggiungere nel 2030. Ma per partire servono più finanziamenti pubblici –sotto forma di sovvenzioni e sgravi fiscali- e investimenti privati, più fondi disponibili per la ricerca, più agricoltori formati (ad oggi nelle università italiane non esiste un corso di agricoltura biologica) e più consumatori consapevoli del cibo di cui si nutrono. Queste le conclusioni del secondo Congresso internazionale Fao sull’agroecologia dal titolo “Scaling up Agroecoly to achieve the Sustainable Development Goals” durato 3 giorni e a cui hanno partecipato 400 delegati tra decisori politici, esponenti della società civile, amministratori, imprenditori e accademici, oltre al direttore generale della Fao Josè Graziano da Silva, al direttore del FiBL Urs Niggli e al presidente dell’IFAD Gilbert F. Houngbo.
L’appello per il cambio di rotta arriva da tutti, un coro di centinaia di persone a favore di un approccio ecologico all’agricoltura: sedici sezioni di condivisione di esperienze di successo in ambito agroecologico, tre plenarie e otto tavole rotonde per voltare definitivamente pagina e lasciarsi dietro l’obsoleta e dannosa Rivoluzione Verde che con la sua corsa allo sradicamento della fame nel mondo ha pregiudicato in maniera sostanziale l’ambiente, la fertilità del suolo e la salute di chi è stato esposto a sostanze chimiche e di chi le ha ingerite, senza mai giungere al suo obiettivo primario (a oggi 815 milioni di persone nel mondo soffrono la fame).
Insomma con la chimica di sintesi non si combattono la carestia e la cattiva gestione delle risorse. Ed è proprio l’agroecologia lo strumento che le Nazioni Unite indicano oggi come essenziale per raggiungere l’obiettivo di sconfiggere la povertà e mantenere gli equilibri ambientali, l’unico approccio che contribuirà in maniera sostanziale ad abbassare drasticamente le emissioni climalteranti, ad assicurare una distribuzione equa delle risorse ed aiutare i Paesi in via di sviluppo a raggiungere la sovranità alimentare.
Il volano di questa rivoluzione ecologica sono il biologico e il biodinamico che possono indicare la strada da percorrere e a riprova della fiducia in questi sistemi la Fao ha deciso di includere nel panel dei relatori la più grande azienda italiana del bio, NaturaSì, unica azienda agroalimentare presente durante le giornate dei lavori. “Saranno i consumatori consapevoli a fare la rivoluzione agroecologica nei campi, perché dipenderà dalle loro abitudini consumeristiche e dal flusso di denaro che dai consumatori andrà in favore degli agricoltori” ha ricordato Brescacin nel suo intervento durante la tavola rotonda su Innovative Markets, Food Systems and Cities.
In effetti i record del biologico parlano da sé: all’agricoltura, per esempio, nella Ue è imputabile il 10,2% delle emissioni totali. La bioagricoltura invece produce il 40% in meno di gas serra rispetto a quella convenzionale. Inoltre i terreni agricoli bio fissano nel suolo una quantità di carbonio compresa tra 0,3 e 0,6 tonnellate l’ettaro ogni anno e trattengono fino al 55% in più di acqua rispetto a quelli coltivati con la chimica di sintesi e i fertilizzanti industriali: così aiutano il mantenimento della fertilità dei suoli, la lotta alla siccità e all’erosione del suolo. Tema, quest’ultimo, che dovrebbe fare notizia in un Paese come l’Italia in cui l’impronta idrica agricola costituisce l’89% dell’impronta idrica nazionale. Eppure, nonostante la forte presenza della stampa internazionale, quella locale si è fatta vedere ben poco.
Ma per attuare questa vera rivoluzione manca ancora qualcosa e nelle parole di Joan Ribò, sindaco della città autonoma di Valencia si individua l’ostacolo: “Servono agevolazioni e sgravi fiscali che sovvenzionino politiche agricole sostenibili, sostengano gli agricoltori nel costoso processo di trasformazione ecologica e sensibilizzino i cittadini. Le stesse agevolazioni e sgravi fiscali di cui ancora oggi gode l’industria petrolchimica che, invece di assicurare benefici all’ambiente, inquina lasciando ad altri l’onere delle conseguenze”.
C’è poi il problema dei costi e dei finanziamenti: i costi che gli agricoltori devono affrontare direttamente -come la certificazione dei prodotti – o gli investimenti che mancano, come quelli in ricerca agraria per ora risibili rispetto a quelli che si fanno sul Dna umano, per citare uno dei campi più finanziati.
Ma tutti, da Danielle Nieremberg –presidente del Food Thank- a Daphne Miller –medico dell’Università della California-, concordano nel dire che l’agroecologia prenderà piede quando i consumatori saranno sensibilizzati e potranno discernere il prezzo arbitrario di un prodotto da quello giusto, che non nasconde un prezzo occulto più alto che potremmo non essere in grado di pagare solo con carta filigranata