Dopo Malles ora è Conegliano a voler dire basta ai pesticidi. Alcune settimane fa nel Comune veneto si è costituito il comitato promotore per indire un referendum consultivo per vietare l’uso di pesticidi chimici di sintesi sull’intero territorio comunale e promuovere invece l’uso dei prodotti fitosanitari ammessi nelle pratiche della agricoltura biologica e/o biodinamica. Ora, una volta depositato presso il municipio il quesito referendario, ci saranno 60 giorni di tempo per raccogliere 2.500 firme di elettori.
di Maria Pia Terrosi
Se a Malles a essere oggetto di attenzione era la coltivazione intensiva delle mele, a Conegliano sono i vitigni: due realtà territoriali diverse che evidenziano però limiti e fragilità di uno stesso modello agricolo ad alta intensità che inquina, modifica profondamente il territorio e le sue risorse, impatta sulla salute dei cittadini.
Per Conegliano, nel cuore del Proseccoshire, senza dubbio la viticoltura è una preziosa risorsa economica: dal 2011 al 2016 nell’area doc la produzione di bollicine è triplicata. Ma a caro prezzo. Non a caso, il Veneto è la regione italiana con i livelli più alti di consumo dei pesticidi (quasi 12 kg per ettaro, contro una media italiana di 5 kg), forti impatti ambientali, inquinamento delle acque, problemi sanitari della popolazione, agricoltori compresi, perdita di biodiversità (i vitigni hanno soppiantato gran parte delle altre colture che fino a 30 anni fa caratterizzavano questo territorio, modificandone l’aspetto paesaggistico). Ne abbiamo parlato con Enrico Maria Casarotti, presidente di A.Ve.Pro.Bi, Associazione Veneta dei Produttori Biologici e Biodinamici.
Oggi la viticoltura copre gran parte delle aree agricole in Veneto. E’ sempre stato così?
La vite in Veneto oggi ha preso il posto di molte altre coltivazioni, ad esempio il mais. In passato c’erano molti piccoli agricoltori che coltivavano un po’ di mais, avevano un vitigno, lasciavano una parte a pascolo. Questo modello proteggeva le coltivazioni: la perdita di biodiversità ha rafforzato gli organismi patogeni che con le monocolture hanno vita facile: si diffondono rapidamente in quanto le piante – di fatto fotocopia una dell’altra – sono suscettibili tutte allo stesso modo ai patogeni. E questo apre la strada agli interventi di chimica di sintesi.
Qual è la differenza nel coltivare la vite con metodi biologici?
Con il bio salta fuori la vocazionalità dei territori: lo stesso vitigno impiantato nel fondovalle umido rispetto a uno in collina è soggetto a un numero diverso di trattamenti. E ha rese differenti. Nei territori vocati la vite – che è una pianta robusta – cresce benissimo e senza bisogno di tanti trattamenti: molte problematiche esistenti nel convenzionale non si presentano. Nella viticoltura biologica non si può usare lo stesso approccio utilizzato nel convenzionale; non si tratta di rinunciare solo all’uso della chimica di sintesi ma di creare piante meno dipendenti, in modo che la chimica rappresenti l’ultima misura da adottare. Per esempio penso all’uso di metodi agronomici o a trattamenti con microrganismi che permettono di tenere sotto controllo gli insetti. Bisognerebbe però avere un approccio di sistema: mi riferisco alla tecnica della confusione sessuale, un metodo – usato in Trentino – che consiste nel rilasciare su grandi superfici feromoni sessuali sintetici, in modo da impedire la riproduzione della specie bersaglio. Questo approccio si potrebbe usare non solo nel biologico ma anche nel convenzionale.
E in termini di produttività?
La resa è legata a molti aspetti, ma se parliamo di viticoltura di qualità dove si fanno 120 /150 quintali per ettaro, il bio può competere, arrivando alle stesse quantità. E’ chiaro che se si va più su – 200, 300 quintali per ettaro – si tratta di quantità che si raggiungono utilizzando molta chimica, soprattutto fertilizzanti che spingono in maniera significativa le piante. Ma si ottengono piante più deboli che vanno fortemente difese. Anche nella viticoltura biologica si potrebbe spingere di più, ma se si fa il bio con la testa del convenzionale ci si ritrova con le stesse problematiche, irrisolvibili con gli strumenti a disposizione.
Come vede il referendum di Conegliano?
Sono assolutamente favorevole al referendum, ma la mia paura è che si possa estremizzare, bianco/nero, buoni/cattivi. Bisogna accompagnare gli agricoltori nel percorso, spiegare loro come fare, quali sono le alternative ai pesticidi. Cominciando anche da piccole cose come togliere i filari più vicini alle case, mettere le siepi a protezione, ricorrere tutti insieme al metodo della confusione sessuale anziché ai pesticidi. Si tratta di proporre interventi applicabili da subito, e lavorare insieme per il futuro. Penso anche all’uso di specie resistenti ad alcune patologie frutto di incroci interspecifici (non all’editing genetico): queste piante potrebbero per esempio essere usate in prossimità delle abitazioni. Certo, non è la soluzione dei problemi ma un approccio che ridurrebbe il numero dei trattamenti. Bisogna riattivare una comunicazione efficace tra agricoltori e cittadini. Nel nostro territorio case e vigneti sono fortemente compenetrati, i problemi degli agricoltori sono gli stessi dei cittadini. Mi riferisco alla salute, gli agricoltori sono quelli che si ammalano di più visto che stanno nei campi tutto il giorno. Così come è miope da parte di alcuni agricoltori non vedere che quando vendiamo una bottiglia di prosecco non vendiamo solo il vino ma anche un prodotto che nasce da uno specifico territorio, che non è solo un luogo di lavoro ma ha un valore paesaggistico in grado di attirare turismo.
Pensa alla candidatura Unesco?
Bisogna diventare consapevoli: è chiaro che un agricoltore che ha un ettaro a vite che vale anche 300.000 euro, non vuole perdere superficie, ma occorre capire che in realtà certe scelte generano dei costi invisibili che alla fine da qualche parte tornano.