Crea: “Il bio spinge l’innovazione e aiuta a frenare il caos climatico”

Il Bioreport 2017-2018 fa il punto sullo sviluppo dell’agricoltura a basso impatto ambientale: trattiene più carbonio nei suoli ed evita le emissioni derivanti da processi industriali ad alto input energetico

di Carlo Luciano


Per superficie (quasi 2 milioni di ettari) e valore del mercato l’Italia occupa il sesto posto nella classifica mondiale del bio. Lo certifica il Bioreport 2017-2018 firmato dal Crea. Che elenca una serie di dati: dal numero degli operatori del settore (75.873, di cui l’88% produttori, in aumento del 5,2% rispetto al 2016) alla percentuale di campi bio sul totale della superficie agricola (oltre il 15%, una percentuale doppia rispetto a quella dell’Unione europea).

Al di là dei numeri, gli aspetti principali che il rapporto mette in luce sono due. Il primo è lo stretto legame con l’innovazione. “Già nel 2009, McIntyre affermava che l’agricoltura biologica, con le sue rigide regole sugli input esterni, è necessariamente più innovativa, in quanto implica la continua ricerca di soluzioni alternative e innovative che le consentano di produrre nel rispetto degli standard biologici”, scrive il Bioreport. “Spesso nell’agricoltura biologica l’innovazione è fondata sul know-how delle aziende, sulla ricombinazione e riapplicazione di ciò che in letteratura viene definita “conoscenza esistente”, cioè tacita, derivante dall’esperienza pratica, che è propria degli agricoltori. In questo senso, si evidenzia come, in tale settore, siano più frequenti i processi innovativi di tipo incrementale, che lavorano proprio sulla conoscenza esistente ( know-how, know-what ) per produrre cambiamenti di tipo organizzativo, di prodotto e di processo”.

Il secondo punto centrale è il ruolo di freno del cambiamento climatico che l’agricoltura bio svolge. Mentre il settore agricolo è il maggiore emettitore mondiale di gas serra non-CO 2 e rappresenta circa il 10-12% delle emissioni serra globali, l’agricoltura biologica ha un elevato potenziale di mitigazione per quanto riguarda le emissioni di N2O, per il minore apporto di azoto ai suoli dovuto alle più moderate fertilizzazioni. Anche l’allevamento biologico ha un impatto minore poiché sono meno frequenti i sistemi che permettono un elevato accumulo di deiezioni in forma liquida – caratteristiche dei sistemi più intensivi – cui si associano maggiori emissioni.

Da un punto di vista più generale c’è chi, calcolando le emissioni di gas serra per chilo di prodotto agricolo, sostiene che l’agricoltura convenzionale, per la sua maggiore produttività, ha performance migliori di quelle dell’agricoltura biologica. Ma le emissioni per ettaro sono spesso più basse. Inoltre, secondo vari studi, “i differenziali di produttività tra biologico e convenzionale andrebbero valutati nel lungo periodo: quando infatti si considerano gli stessi quantitativi di fertilizzanti applicati in entrambi i sistemi e intere rotazioni colturali, questi differenziali sono molto minori”.

Inoltre un altro aspetto positivo legato alla mitigazione delle emissioni energetiche è dato dal fatto che “le produzioni biologiche, non utilizzando i fertilizzanti chimici, annullano le emissioni a monte connesse alla loro produzione, che derivano da processi industriali ad alto input energetico. Un contributo molto rilevante alla mitigazione delle emissioni viene infine dal sequestro di carbonio organico nei suoli che è un’importante strategia non solo di mitigazione, ma anche di adattamento ai cambiamenti climatici, soprattutto nei paesi mediterranei. L’agricoltura biologica, secondo molti studi, aumenterebbe considerevolmente lo stock di carbonio nei suoli, rispetto alla convenzionale. Ad esempio, secondo risultati sperimentali, nei suoli gestiti con applicazione di fertilizzanti organici si riscontra un contenuto di carbonio organico fino al 15% più elevato rispetto ai suoli in cui venivano usati sia fertilizzanti chimici che organici”.

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