Distintività, ovvero valorizzazione delle diversità e della qualità. Trasparenza, soprattutto nella formazione del valore e quindi del prezzo. Contributo centrale alla difesa dei beni essenziali e comuni: aria, acqua, suolo e – importante come mai prima d’ora – clima. Centralità dei territori. Innovazione tecnologica e scientifica. Rilancio dell’allevamento: solo se è biologico riesce a ripopolare gli Appennini e le Alpi. Controlli, con attenzione maggiore alle importazioni da Paesi che hanno standard diversi dai nostri o dove addirittura è più semplice aggirare le regole. E politiche di incentivo che non servano ad aggirare la dura legge del mercato, ma diano un’eguaglianza di opportunità al biologico e rendano possibile la comunicazione dei suoi valori.
Sono questi i capisaldi del Manifesto delle Rivoluzione biopresentato oggi durante il convegno “Dalla rivoluzione verde alla rivoluzione bio” che ha contemporaneamente concluso gli stati generali del biologico e aperto il SANA di Bologna. Un atto da sottoscrivere tra i protagonisti di questa stessa rivoluzione, per evitare che il biologico possa essere “vittima del suo stesso successo”, come spiega il presidente dell’Advisory board Angelo Frascarelli, che ha presentato i contenuti del Manifesto docente di Agraria all’Universita di Perugia.
Dalla cosiddetta rivoluzione verde partita subito dopo la fine della seconda guerra mondiale alla rivoluzione bio di un secolo segnato da tumultuosi cambiamenti tecnologici e sociali. Il salto è quantico, e forse nemmeno i suoi protagonisti riescono a rendersi conto di quali prospettive, ma anche di quante contraddizioni, apra. Non a caso il manifesto è stato presentato oggi in una tavola rotonda a cui hanno partecipato organizzazioni che non sempre si trovano dallo stesso lato della ‘barricata’: le associazioni del biologico (FederBio e AssoBio) e quelle agricole tradizionali(Coldiretti e Cia) così come le cooperative e l’Istituto per il commercio internazionale, oltre all’assessore all’agricoltura dell’Emilia Romagna Simona Caselli.
Il biologico italiano – ha chiarito Frascarelli – “non solo è un storia di successo, ma sta insegnando come andare avanti al resto dell’agricoltura”, quindi deve avere un ruolo nelle politiche perché produce beni pubblici, “senza per questo diventare dipendente dal sostegno pubblico. Di certo il suo ruolo nella difesa del clima e della biodiversità sono elementi che ne fanno non solo un’attività di mera produzione, ma occorre stare all’erta perché in questo momento – avvertono gli estensori del manifesto – “ci sono tendenze ad abbassare il livello di qualità bio. Ma gli standard del biologico devono rimanere elevati, anche se da molte parti c’è un tentativo di ridurre il livello di rigore”.
Secondo Frascarelli, “non è questione normativa, oggi quello che ci preoccupa di più sono i comportamenti opportunistici, il rischio di buchi nei controlli” soprattutto nell’import. Più attenzione alle frontiere dunque, ma anche più tecnologie satellitare e digitali. “Non è un passaggio banale, il bio viene associato all’agricoltura del passato, ma invece le aziende hanno bisogno di consulenza e sviluppo, di sostanze attive, biocontrollo, miglioramento genetico. Insomma serve un modello nuovo di ricerca e innovazione”. Anzi, “agricoltura di precisione, digitale, meccanica di precisione, sensoristica, satelliti si sposano perfettamente con bio”. Di più: la necessità di trasparenza e tracciabilità parla la lingua dell’innovazione spinta: etichette elettroniche, block chain. Ma tutto questo sarebbe sterile se non si sposasse con l’idea del biologico come “modello di sviluppo territoriale, che garantisce sviluppo rurale, economia circolare e servizi ecosistemici. La parola chiave sono i distretti bio”: il manifesto chiede di “riconoscere nella prossima programmazione regionale i biodistretti come strumento essenziale”
Ed è soprattutto sul ruolo centrale del biologico come modello per l’agricoltura italiana nel suo complesso che ha invece insistito Maria Grazia Mammuccini, neo-presidente di FederBio. “Oggi la rivoluzione verde è finita, bisogna passare alla rivoluzione bio. Per fare questo passaggio occorre mettersi a fianco degli agricoltori tradizionali” ma non c’è dubbio su quale sia la direzione da prendere. “La media della presenza di sostanza organica nei suoli agricoli del nostro paese è dell’1%: siamo sull’orlo della desertificazione”, ha ricordato citando i dati del Crea. “La base dell’agricoltura biologica è nutrire non la pianta ma la terra, così come la distintività è nell’utilizzo varietà locali”. Chi coltiva senza chimica di sintesi produce esternalità positive per i cittadini, utili alla sopravvivenza dell’agricoltura ma anche alla salute del Pianeta. Deve quindi essere messo al centro di questa rivoluzione, sottolinea la presidente di FederBio. “La forza del bio è soprattutto nel mettere al centro gli agricoltori, i loro saperi, la loro conoscenza specifica”: benvenga quindi il collegamento tra biologico e denominazioni di origine, e di un biologico che si possa fregiare dell’etichetta ‘made in Italy’. Il punto centrale è riconoscere che “il modello della rivoluzione verde si è esaurito, e quella del bio è una rivoluzione che si fa a piccoli passi, senza lasciare indietro gli agricoltori convenzionali”.