Quando la scienza è miope. Coltivare secondo metodi biologici permette di ridurre le emissioni di gas serra del 20% per ogni tonnellata di coltivazioni prodotta (-4% relativamente agli allevamenti). Questo il dato che emerge da una ricerca pubblicata su Nature da un team di ricercatori dell’università inglese di Cranfield che hanno studiato gli impatti sulle emissioni di gas serra che si avrebbero se si convertisse a metodi biologici tutto il sistema agroalimentare dell’Inghilterra e del Galles. Un esperimento limitato geograficamente, ma utile per comprendere meccanismi validi anche a scale più grandi.
Un beneficio ambientale molto rilevante legato in buona parte al mancato uso di pesticidi e fertilizzanti chimici la cui produzione e trasporto richiede notevoli quantità di energia: la sola produzione di fertilizzanti sintetici rappresenta fino al 10% delle emissioni agricole globali, come testimoniano molti studi condotti in passato.
Un beneficio però limitato – secondo i ricercatori inglesi- a livello locale perché complessivamente invece le emissioni aumenterebbero. Questo perché coltivare con metodi biologici determinerebbe un drastico calo nella produzione agroalimentare delle aree studiate, pari al 40%. Di conseguenza sarebbe necessario ricorrere a merci di importazione che dovrebbero affrontare un trasporto più lungo (e quindi con maggiori emissioni) per arrivare sulle tavole dei consumatori inglesi. Un ulteriore incremento del carico emissivo si avrebbe perché, per soddisfare tale domanda alimentare, in altre parti del mondo si convertirebbero a superfici coltivate aree forestali ed erbose che oggi svolgono un ruolo fondamentale nel sequestro di carbonio.
Questa conclusione paradossale (l’agricoltura biologica fa aumentare le emissioni), in contrasto con le conclusioni di molte analisi firmate da grandi agenzie internazionali, nasce dalla somma di affermazioni sbagliate e scelte metodologiche discutibili. Il primo errore riguarda la valutazione delle rese del biologico: la perdita del 40% appare sovrastimata. Il differenziale è già oggi più basso, anche in una situazione in cui la gran massa dei fondi per la ricerca è mirata a sostenere le tecniche convenzionali. Secondo alcuni studi, lo sviluppo di migliori pratiche di gestione dei terreni potrebbe ulteriormente migliorare la produttività portando il biologico a rendimenti paragonabili a quelli dell’agricoltura convenzionale. E infatti negli ultimi anni le rese della produzione biologica stanno aumentando nonostante il 95% delle attuali varietà di colture siano state sviluppate per l’agricoltura ad alto input e non siano adatte ai sistemi biologici.
Il secondo errore, di metodo, è dare una valutazione solo tecnica, che non tiene conto degli aspetti sociali del problema alimentare. Come è noto, oggi a livello globale si spreca circa un terzo del cibo prodotto: se esistono più di 800 milioni di affamati non è perché mancano alimenti ma principalmente per gli squilibri economici che colpiscono in modo particolare alcune aree geografiche e alcune fasce sociali. Da questo punto di vista scelte basate sull’espansione del bio favoriscono una maggiore attenzione alla catena alimentare aiutando a combattere lo sperpero di cibo.
Il terzo errore riguarda un’analisi centrata su una fotografia del reale invece che su una proiezione attenta al futuro. “Il punto debole dello studio inglese sta nel fatto che si basa su una valutazione a scala geografica ma non a scala temporale. Intendo dire che non tiene conto degli effetti prodotti dall’uso prolungato dei pesticidi sui terreni: milioni di ettari resi sterili e quindi inutilizzabili, un danno che riduce complessivamente la base produttiva del sistema agricolo”, evidenza Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’Area per la conservazione e degli habitat e per l’uso sostenibile delle risorse agro-forestali di Ispra. “Se non si fossero usati pesticidi, la base produttiva agricola non si sarebbe ridotta e il passaggio al biologico di Inghilterra e Galles simulato nello studio non avrebbe portato alle conseguenze descritte in termini di impatti emissivi e di deforestazione: i sistemi agricoli dei Paesi esteri avrebbero potuto rispondere alla domanda in quanto sarebbero stati disponibili terreni fertili, senza necessità di deforestare nuove aree. Inoltre un altro elemento trascurato dallo studio riguarda il mare, che per effetto dei fertilizzanti e delle lavorazioni agricole ha ridotto la capacità produttiva in termini di pescato: sono diventate più di 400 le marine dead zones nel mondo”.