Noccioland: la rivolta dei territori

Si moltiplicano le amministrazioni locali che vogliono creare un’alternativa alle coltivazioni intensive.  L’esperienza del bio-distretto della Via Amerina e delle Forre in Tuscia

di Maria Pia Terrosi


Davanti agli effetti dell’espansione del modello agricolo intensivo, si moltiplicano le aree in cui le amministrazioni locali, i comitati di cittadini e anche i piccoli agricoltori locali chiedono un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente, del paesaggio e della salute. È quanto sta succedendo nella Tuscia, in provincia di Viterbo. Un territorio messo a dura prova dalla monocoltura intensiva della nocciola rispetto alla quale un numero crescente di Comuni, spesso su pressione della cittadinanza, ha emanato ordinanze restrittive nei confronti delle monocolture e dei trattamenti chimici che le accompagnano. Fra questi, i Comuni di Bolsena, Grotte di Castro, Capodimonte, Gradoli, Marta e Montefiascone, scesi in campo per frenare la coltivazione intensiva di nocciole e le sue conseguenze per il territorio.

Le conseguenze della coltivazione intensiva della nocciola

Proprio sulla coltivazione intensiva della nocciola in Italia è centrato il reportage “Noccioland” di Manlio Masucci, pubblicato su Terra Nuova. Il fenomeno negli ultimi anni è arrivato a numeri preoccupanti, alimentato dalle multinazionali del settore che offrono agli agricoltori locali contratti molto allettanti, stravolgendo gli equilibri dei territori.

“Noccioland” non può che partire dalla Tuscia, in provincia di Viterbo, dove si concentra il 30% dei noccioleti italiani la cui coltivazione coinvolge una trentina di Comuni e 8 mila famiglie. Il territorio è stato messo a dura prova dall’impiego dei fitofarmaci. Impatti pesanti sul suolo e sulle acque, ma anche sugli abitanti, sull’agricoltura, sulla biodiversità, sul turismo. Tanto che la Tuscia è stata inserita nell’Atlante dei conflitti ambientali, la piattaforma web  costruita con la collaborazione di dipartimenti universitari, ricercatori, giornalisti, attivisti e comitati territoriali.

Le alternative delle buone pratiche agroecologiche

L’indagine di Masucci analizza anche quanto già oggi si può fare, documentando le buone pratiche agroecologiche che offrono un’alternativa valida alla coltivazione intensiva sia dal punto di vista ambientale che economico.

Ad esempio indaga come gli agricoltori biologici riescano a controllare la cimice, il pericolo numero uno dei noccioleti, senza utilizzare pesticidi. Buoni risultati che dimostrano come un diverso modello – dalla produzione, alla trasformazione e alla commercializzazione – possa funzionare bene anche dal punto di vista economico.

L’esempio della Tuscia

Nel bio-distretto della Via Amerina e delle Forre, un territorio che comprende 13 Comuni della Tuscia, la lotta contro la monocoltura della nocciola va avanti già da qualche anno. “E’ proprio la Tuscia – si legge nel reportage – a rappresentare l’avamposto più importante di un conflitto che sembra in procinto di espandersi anche in altre aree del Paese. La Tuscia, dove i problemi legati alla coltivazione intensiva dei noccioleti sono più evidenti, diventa allora un laboratorio dove verificare l’entità del conflitto e la contestuale tenuta dell’alternativa basata sull’agricoltura biologica e sul coinvolgimento di tutti gli attori locali all’interno di circuiti economici virtuosi”.

Come precisa il presidente del bio-distretto, Famiano Crucianelli, non si tratta di una lotta contro la nocciola in quanto tale, ma contro la modalità di coltivazione, basata sullo sfruttamento delle risorse, sulle filiere lunghe e sulla grande distribuzione.

I buoni risultati ottenuti in Tuscia stanno inducendo anche altre aree geografiche a organizzarsi per contrastare l’avanzare della monocoltura della nocciola. Puntando invece a una produzione sostenibile che tenga conto delle esigenze dei suoli, del paesaggio, delle acque e della salute di chi vive nel territorio.

 

 

 

 

 

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