Vertical farm? Meglio i profumi della biodiversità

vertical farm

Le fattorie verticali eliminano il rapporto con la terra. Sono l’opposto dell’identità alimentare mediterranea

Di Antonio Cianciullo

La terra è bassa. È un modo di dire antico, che trasmette la fatica dei secoli. E riflette anche i ricordi di fame, carestie. Tuttavia, in questo chinarsi per dissodare, gli esseri umani hanno convissuto con la natura selezionando specie adatte al suolo e alla pancia, creando sapori e profumi, regalandoci sostanze capaci di nutrire il corpo e lo spirito. È una storia che dovrà essere declinata solo al passato? Sostituita da un’industrializzazione talmente spinta da arrivare alla rinuncia dell’elemento base dell’agricoltura, la terra? Il cibo verrà prodotto in hangar, officine dell’alimentazione gestite da robot?

È una tesi che da qualche tempo spunta con frequenza crescente. Il Fatto quotidiano ha recentemente dato notizia dell’inaugurazione nei sobborghi di Copenaghen (Danimarca), della più grande fattoria verticale d’Europa. La struttura si allarga su 7.000 metri quadrati, utilizza 14 livelli di scaffalature per una produzione annuale stimata in 1.000 tonnellate di verdura. Niente terra, niente sole, niente contadini: le piante crescono su un sostrato artificiale, la luce arriva da led sempre in funzione, i robot curano la crescita della lattuga e delle erbe.

È veramente questo il futuro dell’agricoltura come si dedurrebbe dalla moltiplicazione dei titoli di giornale? Chi è a favore di questa tesi elenca i vantaggi. Il primo è la carenza di terra fertile: erosione, degrado e inquinamento hanno cancellato quasi un terzo della terra coltivabile. Il secondo è la possibilità di evitare l’uso di pesticidi ed erbicidi perché in ambienti controllati il rischio di attacchi di patogeni è molto basso. Il terzo è che le rese possono crescere molto.

Tutto vero. Però l’ultima volta che si è provato a forzare il ciclo di produzione lanciando la cosiddetta “rivoluzione verde”, che in realtà è stata una consegna di potere alle industrie dell’agrochimica del dopoguerra, non è andata molto bene. La resa è effettivamente aumentata. Ma un terzo del prodotto è stato mangiato dagli sprechi di un sistema che ha fatto crollare il valore del cibo. E l’impatto ambientale del sistema agricolo è cresciuto enormemente: la crisi climatica si è aggravata e l’inquinamento ha impoverito milioni di ettari di terra fertile.

Allora, pesando i pro e i contro, ha un senso l’entusiasmo per l’agricoltura senza terra? “L’Ispra ha condotto in questo campo un esperimento molto interessante”, risponde Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’area protezione specie e habitat e gestione sostenibile dell’Ispra. “Abbiamo creato un ambiente protetto per le prime due o tre settimane di vita di piantine di olmo, faggio e querce. Era un sistema chiuso con una serie di piani che scorrevano in continuazione per posizionare semi e piantine in modo da assicurare sempre la migliore esposizione rispetto a luce, umidità e temperatura. L’esperimento ha funzionato. La fattibilità tecnica c’è. Quello di cui occorre discutere sono gli scopi, se si vuole pensare a una produzione di tipo agricolo”.

Secondo Ciccarese è difficile dare una risposta universale alla convenienza delle fattorie verticali. Ad esempio il bilancio ambientale di una vertical farm in Danimarca o in Svezia tiene conto del fatto che l’alternativa è l’importazione dei prodotti, con i conseguenti costi in termini di emissioni serra, economicità, freschezza degli alimenti, mentre la torba, che è il sostrato che sostituisce il suolo, è abbondante.

In un Paese mediterraneo come l’Italia la situazione è radicalmente diversa, anzi opposta. La torba dovrebbe essere importata aggravando costi e impronta ecologica. La terra, soprattutto se smettessimo di contaminarla, è lì, forte di una millenaria storia di eccellenza. La biodiversità dei prodotti alimentari, con la sua sinfonia di profumi e sapori, ci viene invidiata da tutto il mondo e dipende da un legame unico e insostituibile con la fisicità e la storia culturale del territorio.

Insomma il mondo resterà globalizzato nonostante le paure da pandemia, ma è la diversità culturale a renderlo ricco e interessante. E buttare via un patrimonio inestimabile come quello della biodiversità alimentare italiana in nome di un progetto adatto a regioni dal clima sfortunato sarebbe una follia.

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