Con il bio il suolo diventa una “spugna” di CO2

suolo

Ma i campi restano prevalentemente convenzionali: ecco perché dai suoli europei 108 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno finiscono in atmosfera

E’ una fonte inaspettata quella che potrebbe mettere a rischio il raggiungimento degli obiettivi climatici dell’Europa. Con l’emissione di 108 milioni di tonnellate di CO2 annue, i suoli – che finora sono stati i più grandi pozzi di carbonio dopo gli oceani – diventano per l’Europa una preoccupante sorgente di emissioni climalteranti. Lo si apprende dal documento “Soil Carbon” pubblicato in questi giorni dall’Eea – European Environment Agency – che ha analizzato il comportamento dei suoli nei vari paesi Ue in termini di emissioni.

Complessivamente nel 2019 – l’anno osservato dai ricercatori Eea – 387 milioni di ettari di suoli minerali (ovvero costituito in prevalenza da elementi minerali quali particelle di sabbia, limo e argilla) hanno sottratto e immagazzinato 44 milioni di tonnellate di CO2. Ma 17,8 milioni di ettari di terreni organici (quelli con alte percentuali di materiale derivante da organismi viventi quali piante, batteri, miceti, fauna) ne hanno emessa una quantità parecchio superiore. Il risultato è stato disastroso: 108 milioni di tonnellate emesse e 44 milioni assorbite lasciano un saldo di 64 milioni di tonnellate di CO2 che vanno ad aggiungersi a quelle già presenti in atmosfera. Una quantità pari al 2% del totale delle emissioni europee.

Sembrerebbe di trovarsi di fronte a una contraddizione: i suoli organici, i più pregiati dal punto di vista ambientale e climatico, sono una minaccia? La risposta è. Dipende. Dipende da come vengono coltivati. Quelli gestiti in maniera convenzionale sono una fonte consistente di emissioni serra. Quelli bio invece assorbono CO2. Siccome i convenzionali sono più numerosi dei bio, la bilancia complessiva delle emissioni vede l’agricoltura sul banco degli imputati. Ecco perché.

La sostanza organica è una componente chiave del suolo che ne influenza le proprietà fisiche, chimiche e biologiche, ne migliora la struttura riducendo l’erosione e gli impatti negativi sugli ecosistemi. Inoltre aumenta la ritenzione di acqua e sostanze nutritive, facendo crescere la produttività delle piante.

Ma le tecniche e le pratiche di coltivazione influiscono sul contenuto di sostanza organica.

Un terreno ricco di carbonio se viene coltivato in maniera convenzionale – quindi soggetto a fertilizzazione con concimi di sintesi e a lavorazioni profonde del terreno – rilascia attraverso l’ossidazione della sostanza organica grandi quantità di CO2 trasformandosi da assorbitore a fonte emissiva.

Al contrario l’adozione di metodi e pratiche di coltivazione biologica fa aumentare il contenuto di sostanza organica e quindi di carbonio nei terreni sia minerali che organici. Ad esempio riducendo il numero e la profondità delle lavorazioni, adottando la rotazione delle colture e abbandonando la monocoltura, massimizzando la copertura del suolo attraverso l’inerbimento o la pacciamatura.

Il peso ancora troppo scarso delle coltivazioni biologiche si riflette sullo stato di fertilità dei terreni europei oltre che sul livello di emissioni serra a carico dell’agricoltura. In Europa il 75% delle terre coltivate ha concentrazioni di carbonio organico inferiori al 2%. In Italia, in alcune aree il valore scende al di sotto dell’1%. Un dato preoccupante – fa notare Lorenzo Ciccarese, membro del Consiglio Scientifico di Ispra – sia per la ridotta capacità di contenimento delle emissioni di CO2 presenti in atmosfera sia per la salute e qualità del suolo.

Per invertire la rotta occorre prima di tutto incrementare la capacità dei terreni di sequestrare la CO2. In questo l’agricoltura rigenerativa può dare un contributo importante aumentando la capacità dei terreni agricoli di sequestrare carbonio. La perdita di carbonio nei terreni agricoli ha conseguenze non solo sulla concentrazione di CO2 in atmosfera, ma anche sulla fertilità stessa dei suoli e di conseguenza sulla qualità del cibo prodotto.